di Giuseppe Martorana
Per tutto l’Ottocento e almeno fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, uno dei problemi più complessi relativi all’insegnamento della lingua italiana nella scuola primaria riguardava l’uso del dialetto, sia nella forma orale che in quella scritta. Sulla lingua parlata si poteva anche sorvolare, ma le composizioni scritte erano eseguite usando il medesimo linguaggio, oserei dire un italiano maccheronico o un dialetto italianizzato.
Erano passati quasi cento anni dall’Unità d’Italia e il popolo non sapeva esprimersi ancora in lingua italiana, anzi era restio a farlo. In quel periodo, giustamente, la nostra cultura era definita dialettofona e orale. Ma c’era di più; alcuni bambini, provenienti da famiglie operaie e contadine, i cui genitori erano analfabeti, non capivano la lingua italiana parlata dagli altri e spesso i maestri erano costretti a fare la traduzione.
Nell’Ottocento, Sydney Sonnino e Leopoldo Franchetti, dopo un’inchiesta, dichiararono: “Qualcuno suggerisce che per trasformare le condizioni della campagna, bisogna diffondere l’istruzione, diamo coscienza ai contadini del loro stato. Seminiamo vento e raccogliamo tempesta. Perché i contadini vivano sereni non devono essere istruiti”.
Anche i Gesuiti e la rivista Civiltà Cattolica, in passato, avevano sostenuto che i branchi di zotici contadini, di monelli di strada, di garzonetti di bottega non potevano imparare l’italiano, e che ogni studio che si fosse proposto di fare apprendere l’italiano alle classi infime del popolo sarebbe stato per la massima parte un lavar la testa all’asino.
Scrive Giuseppe Lombardo Radice: “Nelle scuole del popolo, il dialetto, il tanto aborrito e disprezzato dialetto, che è – e come! – una lingua viva, sincera, piena, viene ad assumere una straordinaria importanza didattica, perché è la lingua dell’alunno e perciò l’unico punto di partenza possibile a un insegnamento linguistico” (1).
Quando nel 1861 si conseguì l’Unità d’Italia, secondo Tullio De Mauro (recentemente venuto a mancare), la lingua italiana (come scrisse anche il Manzoni) era ancora “una lingua morta” e che, senza possedere la lingua comune, i cittadini non erano cittadini di pari diritto. All’unione politica, infatti, non corrispondeva una lingua unitaria. Scrive ancora il De Mauro: “L’Italia arriva all’unificazione politica in una situazione che si potrebbe chiamare di dialettofonia obbligata. In pratica il 92% della popolazione non conosceva che il proprio dialetto e ignorava del tutto l’italiano, dimodoché per parlare, nelle varie regioni italiana, la gente era costretta di necessità a ricorrere ai dialetti. Doveva usare i dialetti non per scelta, ma per obbligo” (2). Il che per il De Mauro non significa che il dialetto sia una mala erba da estirpare o un male.
Anche Luciano De Crescenzo, in un suo volume, scrive: “Per quanto riguarda la cultura quasi nessuno parlava l’italiano. Mio padre durante la guerra 1915-18 faceva l’interprete. Non che sapesse il tedesco, sia chiaro, faceva l’interprete fra il tenente veneto e il sergente siciliano” (3) .
Vediamo ora cosa pensava del dialetto il nostro Ignazio Buttitta: “Scrivo in dialetto perché è la mia lingua naturale, la lingua che ho parlato tra le braccia di mia madre, la lingua che ho parlato sempre, la lingua che ancora oggi parla l’80% della gente: è perciò che l’uomo s’identifica nel proprio dialetto e riesce meglio a comunicare il proprio sentimento. È un errore dire che basta soltanto la lingua italiana per riuscire a comunicare, ad esprimersi. Non si può parlare bene l’italiano se non si conosce il proprio dialetto” (4)
Scriveva Stefano Martorana, maestro di una terza maschile del Bagnera nell’anno scolastico 1950-51: “Il tentativo abbozzato da qualcuno di esprimersi in italiano, provoca il sorriso degli altri, come se fosse cosa impossibile. S’intende che questo sorriso sconforta chi, incitato, si sforza di esprimersi in italiano. Qualche composizione sembra uno dei primi frammenti del volgare italiano”.
Anche Francesca Bordonaro si pone il problema del dialetto siciliano e si chiede: “Come farebbe il bambino a leggere i testi in dialetto come quelli del nostro compaesano Ignazio Buttitta o a capire le canzoni fantastiche di una straordinaria interprete di canzoni siciliane come Rosa Balistreri, se non conoscesse la nostra lingua dialettale?” (5)
Oggi il linguaggio dialettale nell’insegnamento non costituisce più un problema, anzi nelle scuole si tenta in tutti i modi di farlo sopravvivere, perché nel tempo il nostro dialetto è come caduto in bassa fortuna.
(1) Pagina 183 del volume “Lezioni di didattica” – Edit. Sandron 1952
2. Pagg. 6-8 in “Culture di paesi” di autori vari, con prefazione di Franco Lo Piparo – Edizioni Dell’Orso 1981.
3. Pagina 13 del volume “Sembra ieri”- Editt. Mondadori 1998
4. Pagina 148 dello stesso volume di cui alla nota 2.
5. Settimanale di Bagheria n. 53 del mese di giugno 200