di Impronta Unica
C’è stato un tempo in cui il vicino, persino colui che stava un po’ più in là, oltre il raggio d’azione di una conversazione fra chi occupava lo “strapuntino” di casa e chi si godeva la frescura di fine giornata sul balcone al primo piano, non era l’altro, l’estraneo.
Erano gli anni in cui i vicini potevano bussare a casa tua all’ora di pranzo per chiederti “u pitrusinu”, “u spicchiu r’agghia”, cento lire per il pane e tu non consideravi per nulla strana quella richiesta.
Era il tempo in cui il vicino non rappresentava il semplice dirimpettaio, temporaneo affittuario di un immobile, ma era uno di cui conoscevi i genitori, la discendenza dei nonni talvolta, “u ‘nciuriu” con cui lui e i suoi familiari erano riconosciuti in paese. “U vicinanzu” insomma. E questi dati bastavano ad aprire le porte di casa e quelle dell’accoglienza intesa in senso lato. L’accoglienza del sostenere, senza dubbio moralmente, spesso con cibo, talvolta con denaro.
Capitava di tanto in tanto che a presentarsi fosse qualcuno che non conoscevi e a quel punto bastava chiedere “a cu appartieni” e attendere una risposta che risolvesse l’enigma per concedere una sorta di lasciapassare verbale in grado di tessere all’istante un legame di tipo familistico.
Era proprio questa relazione di solidarietà che esisteva nei quartieri e che rendeva Bagheria una comunità.
Col tempo queste connessioni che univano l’intero strato sociale del paese si sono indebolite, sebbene, in maniera flebile, resistano ancora in poche zone. Una manciata di vie fra le più antiche in realtà.
Oggi l’atteggiamento è ormeggiato sul versante opposto. Se il vicino viene a chiederti “u pitrusinu”, a tua volta ti chiedi quale sia il suo vero intento e non solo perché hai davanti uno che non sai “a cu appartieni”. Il timore dello sconosciuto, legittimo per carità, rischia di diventare qualcos’altro, rischia di regredire nella paranoia e degenerare nell’intolleranza verso il diverso (per estrazione sociale, per razza, per credo religioso o politico, per gusti sessuali). E questo mette a repentaglio quei legami, quelle connessioni appunto, che il tempo, le tradizioni hanno tessuto per decenni e i nostri padri e prima di loro i nostri nonni, ci hanno saputo tramandare.
Quando noi di Impronta Unica abbiamo deciso di attivare le iniziative Pane in attesa e alcuni mesi dopo Penne & matite, avevamo in mente quel tempo e quei legami. Eravamo convinti che quel tessuto di connessioni che molti di noi avevano vissuto da giovani, non fosse irrimediabilmente compromesso. Logoro sì, lacero certamente, ma non tanto da impedire un attento lavoro di ricucitura.
I risultati di Pane in attesa e Penne & matite ci hanno dato ragione. E non ci riferiamo solo ai numeri che pure sono notevoli e ci gratificano ben oltre le previsioni.
Alcuni panifici aderenti a Pane in attesa continuano ancora oggi a portare avanti autonomamente l’iniziativa che per Impronta Unica si era conclusa entro i tempi stabiliti a inizio progetto. Qualcosa di simile è accaduto anche per Penne & matite che, per propria natura, ha avuto un tempo di vita più breve visto che era indirizzata ai bambini delle scuole privi del materiale per affrontare il nuovo anno scolastico.
I frutti delle due iniziative ci raccontano questo tempo in rapporto al nostro passato. Chi ha comprato un pane per sé e un altro “in attesa” non lo ha fatto chiedendo “a cu appartieni” colui che lo avrebbe ricevuto, così come chi ha acquistato materiale scolastico per i propri figli e per quelli degli altri. E sebbene questo anonimato possa sembrare in contrasto con la tradizione del passato, anzi possa addirittura mostrarsi come il suo esatto opposto, ha un pregio in grado di superare persino il lasciapassare “a cu appartieni”: chi ha donato a occhi chiusi un pane o una matita lo ha fatto potenzialmente per chiunque, anche per l’altro, anche per l’estraneo e chi li ha ricevuti li ha avuti potenzialmente da tutti, anche da chi lo considera l’altro o il diverso.
È proprio questo atteggiamento che noi consideriamo uno degli antidoti, sicuramente non il solo, alla paura e alla diffidenza.
È questo il nuovo legame, la nuova connessione da cui il nostro tessuto sociale deve ripartire. Non una toppa su un drappo lacero, ma una nuova trama in grado di tessere una più robusta e moderna tela.