Si può leggere un libro al contrario? Si, anche Pennac approverebbe. Si, se la dedica è un atto d’amore e di fiducia verso le nuove generazioni: “Dedico la seconda edizione di questo libro alle ragazze e ai ragazzi di Bagheria perché si prendano cura di questo importante monumento, con l’augurio che possano fare meglio di noi nei prossimi anni”.
Si conclude così questo prezioso volumetto curato da Antonio Belvedere, dal titolo “Il Palazzo Cutò di Bagheria”, una seconda edizione, uno strumento utile agli addetti ai lavori, per il rigore scientifico, e ai profani che scopriranno quanta storia e quanti, tesori sono celati in questo monumento. L’ architetto Belvedere, in questo articolo spesso lo chiamerò Antonio, ti prende per mano e ti porta in giro per la storia di questo paese.
Così alla doppia fila di macchine, al caos di via Consolare, nella mente del lettore prende posto il verde della piana della Conca d’oro tagliata solo dalla strada che arrivava a Solanto. Nasceva la moda della villa fuori porta ed ecco che lo sguardo dell’autore si ferma su questo crocevia dove due monumentali guglie di pietra “intagliate e rifatte due volte” segnavano l’ingresso della nascente Bagaria. Lì in quel piazzale sostavano le carrozze che arrivavano da Palermo, portando i nobili alle loro dimore. Intanto in quella zona sorgevano i quartieri popolari, Cattolica, Aragona, Santa Rosalia, nomi ispirati alle casate nobili, che per me puntavugghiota da generazioni acquistano senso solo se pronunciate in dialetto. “Il villaggio è stato costruito di recente – scriveva Léon Dufourny – ed è disposto in modo molto regolare”.
Per Hittorff, “La ci è costruita su un piano molto regolare e l’effetto che se ne ricava è molto soddisfacente” Questa era la descrizione della nascente Bagheria, secoli dopo sarà necessaria una Commissione consiliare d’inchiesta sul sacco edilizio.
Beffardo desstino quando Dio gioca a dadi. Palazzo Cutò ha sicuramente segnato tanto della vita di Antonio – sin dal primo incarico ricevuto dalla amministrazione comunale nel 1983, non ancora trentenne, fino al 1993, quando si conclude il primo cantiere di restauro delle coperture – ed ecco che nelle sue pagine si snoda la storia della costruzione della villa voluta dal principe Aragona nel 1712. Come un buon padrone di casa ci racconta delle duemilasettecendosedici carrozzate di pietra che arrivano dalle gialle cave di Aspra utili a realizzare le murature portanti, fino a portarci in giro al piano nobile dove è possibile ammirare i tanti affreschi del Borremans.
La bellezza è un varco che ci regala salvezza. Così ogni giorno per andare al lavoro, io vado sempre a piedi, faccio un giro strano per le vie della Puntavugghia, imbocco via Cutò e lì si realizza il φαινόμενον che salva le mie giornate. Poter guardare il cielo attraverso l’altana del palazzo è la rivelazione che aspetto ogni mattina.
Ora, grazie al racconto di Antonio, conosco le fatiche del mastro falegname Ragonese che ripone le travi di quercia o il chiavettiere Mastro Francesco Milazzo che organizza una fucina in cantiere per realizzare i nuovi ancoraggi. Una corsa contro il tempo, un’impresa epica, per salvare l’altana, che secoli dopo con$nua a regalare a me che guardo quel pezzo di cielo una via d’uscita dalla ripetizione quotidiana dei gesti. Abbiamo così poca attenzione per la bellezza che la nostalgia è il primo gradino della nostra espiazione.
E così il racconto si sposta sul paesaggio, sui tre ettari che circondavano la villa, il suo bosco, i giardini bordati da siepi con recinti e sedili, gli alberi perenni, i coffee house, tutto divorato dalle trasformazioni sociali. La ferrovia avrebbe tagliato in due il giardino e anche la Puntaugghia, spazio di mediazione tra le ville e la città, sarebbe stata travolta dalle demolizioni, lasciando spazio solo ai nascenti maiasieni di limoni. Il rapporto tra le ville e la città oramai risultava spezzato, anzi, quest’ultima cominciava ad avvertire queste domus come un peso ingombrante per i troppi vincoli che ponevano ad una popolazione che dall’agricoltura avrebbe spostato l’asse economico sul mattone.
Al cemento selvaggio sono seguiti gli anni, non meno gravi, dei cliché, della retorica, delle frasi vuote di senso, dei tanti progetti senza contenuti e senza visione e così tra la ci e le sue ville è avvenuto un lento e inesorabile cupio dissolvi. Tutto questo viene raccontato in questo prezioso volumetto, ben curato graficamente e che dovrebbe stare, secondo me, nelle case di tutti i baarioti per ricordarci della bellezza perduta. Ho amato questo libro perché è scritto senza retorica, perché ci si appassiona alle vicende di questo monumento, perché è un libro politico ma è soprattutto un atto d’amore. Ancora una volta Antonio si prende cura di questo palazzo, stavolta non come architetto ma come, scrittore, chiedendo a nome di tutti, oltre alla manutenzione ordinaria e straordinaria, una visione sulla sua destinazione per restituirlo alla città e che lo affranchi, finalmente, dalla condizione di un figlio di un dio minore.