I banchi a rotelle di ultima generazione, pagati a caro prezzo e che dovevano servire per il distanziamento tra gli alunni per evitare il diffondersi del covid, mi riportano, per associazione di idee, ai banchi in uso negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso; si trattava di monoblocchi nel senso che il leggio e il sedile erano un tutt’uno.
Quello dei banchi era l’eterno problema dei maestri, sia per quanto riguardava il loro stato d’uso, sia per l’effettiva disponibilità degli stessi. Ne abbiamo già parlato in altre occasioni; vediamo ora cosa scriveva, poco dopo la fine dell’ultima guerra, la maestra Di Marco della 3^ f di Aspra: “I banchi sono di vecchio tipo, sgangherati, con sedili stretti e lontani dal leggio. I ragazzi vi stanno male e si stancano facilmente. Mancano i calamai fissi e gli alunni sono costretti a portarli da casa. E’ un continuo disordine e spesso si ode il tonfo di una boccettina che va a terra in frantumi macchiando il pavimento di inchiostro. Tutto questo a detrimento della disciplina”
Quanto lamentato dalla maestra Di Marco (che nell’a.s.1943‑44 era stata la mia maestra di 1^ elementare al “Bagnera”) era a conoscenza dei funzionari e dei tecnici comunali, ma prima che l’arredamento vetusto fosse sostituito con altro nuovo e più rispondente didatticamente alle esigenze dei ragazzi, passavano mesi e anni. Dopo quasi novant’anni dall’Unità d’Italia, quello dei banchi continuava a essere un problema, sempre presente, sia dal punto di vista quantitativo che didattico.
Un altro ricordo riguardante i banchi mi riporta agli ultimi anni Cinquanta del secolo scorso quando cominciai a insegnare.
Da alunno di scuola elementare e media avevo sempre notato la disposizione dei banchi nell’aula scolastica in modo simmetrico e ordinato in due o tre file disposte verticalmente e parallele l’una all’altra. Infatti, si diceva primo o ultimo banco, prima, seconda o terza fila; i più piccoli di statura sedevano ai primi banchi, gli spilungoni agli ultimi, senza contare che spesso anche i meno bravi erano relegati in fondo all’aula, il che non era una scelta didattica ben meditata.
Quando nel 1955 visitai la scuola elementare di Limbadi (Vibo Valentia), dove insegnava mio fratello, rimasi particolarmente colpito dall’arredamento dell’aula; notai, infatti, che i banchi erano disposti a semicerchio e che la cattedra, priva della predella, era equidistante dai due punti del semicerchio. Gli alunni avevano una migliore visione anche della lavagna, e la vicinanza tra maestro e alunni faceva si che ci fosse una maggiore partecipazione degli alunni stessi all’attività scolastica.
In altre parole, nel secondo dopoguerra, si cercò di rendere meno cattedratico l’insegnamento e questo, con tutte le altre iniziative diverse dalla vera attività didattica, faceva si che la nostra scuola fosse resa più attiva e dinamica, una scuola dove il bambino andava, per “fare” più che per ascoltare, secondo lo spirito dei programmi del 1955.
Verso la fine degli anni ‘50, quando anch’io cominciai a insegnare come supplente nelle scuole elementari, cercai di mettere in pratica quelle stesse iniziative fatte da mio fratello e principalmente quella che riguardava la disposizione dei banchi e della cattedra; questo cambiamento mise in agitazione alcuni bidelli tra i quali il famoso “Don Popò”(Ippolito Sorci), invalido di guerra e Antonino Cuffaro, mutilato di un braccio, che tutti definivano il grande “compagno” per le sue idee politiche “sovietizzate”. Spesso mi diceva – e sembrava esserne orgoglioso – “ non dimentichi che nel nostro cielo transitano i missili sovietici”.
I bidelli, al momento delle pulizie, rimettevano “a posto” i banchi nel precedente rigido dislocamento. E noi ‑ io e i miei alunni – l’indomani a “riordinare”.
Quando ci fu il “chiarimento” tra me e i bidelli, raccontai loro quel dialogo di un film o di uno sketch ‑ non ricordo bene – tra Totò e Fernandel, nel quale Totò era l’insegnante e Fernandel il bidello. Fernandel protestava con Totò che aveva disposto i banchi in maniera diversa, e questi gli rispondeva: “Si bancos non spostamus, scholam activam non facimus!”
Ovviamente, non bastava ordinare i banchi in modo diverso per fare scuola attiva, ma costituiva di per sè un elemento di rinnovamento, rispetto a certi schemi rigidi e predeterminati che vedevano gli insegnanti lontani dagli alunni, non solo riguardo lo spazio, ma anche dal punto di vista del rapporto interpersonale.
Un giudizio sulla scuola di oggi? Il mio – ma non conta nulla – non è positivo e non lo è già dagli anni Novanta del secolo scorso, prima con la creazione dei moduli didattici, in seguito riveduti e corretti, poi con la concessione dell’autonomia amministrativa e didattica agli istituti scolastici, le cui iniziative, talvolta, sembra che stiano portando alla politicizzazione della scuola. Io sono per la scuola pubblica, dove per 14 anni ho insegnato e per 29 anni ho svolto la funzione di segretario, ma la scuola italiana, a parere di tanti, è tutta da rifondare.