In quelli che ai nostri giorni chiameremmo “tempi andati”, le persone, di diverso rango sociale e cultura, non amavano farsi fotografare, a testimonianza che, conoscenza e superstizione non hanno mai avuto rango sociale e livello culturale.
Secondo antiche, ma non troppo, credenze, l’immagine, sia essa riflessa in uno specchio, dipinta in un quadro o fotografata, sarebbe in grado di catturare l’anima di chi viene fotografato.
Se questo tipo di idea può sembrare obsoleta o retaggio di una cultura ormai estinta, non è così.
In alcuni paesi nel mondo, questa credenza è ancora fortemente radicata. La fotografia, è vista come un atto magico che, come anzidetto intrappola l’anima nella pellicola.
Alcuni popoli che vivono nelle Ande, così come i Zulu e i Kuna di Panama, ancora oggi hanno la stessa paura di una macchina fotografica di come ne avevano i loro antenati quando scoprirono il fuoco.
La divinità, in quasi tutti i paesi del mondo, è rappresentata dalla Luce, per il fatto che, l’uomo ha sempre avuto paura del buio. Talvolta però, non riflettiamo che, l’oscurità, diversamente dalla luce non sorge e non tramonta, e non ha una fonte.
Nel momento della nascita, viene usato il termine, “venire alla luce”, dimenticando che dal buio veniamo e nel buio probabilmente torneremo.
Siamo esseri che brilliamo quando c’è il sole come delle vetrate gotiche, ma è quando cala l’oscurità che rileviamo la nostra bellezza, solo se abbiamo una luce dentro di noi.
Tornando ai nostri giorni, uno dei più grandi fotografi di questo secolo, Oliviero Toscani, ci dice che «L’immagine ha sostituito la realtà perché la realtà esiste solo se c’è l’immagine.».
Quello che in modo ancestrale racconta una fotografia è forse il rapporto tra il buio e la luce, non per niente per una buona foto è necessaria una buona esposizione alla luce, ma per “nascere” , ciò che viene impresso in un “negativo”, ha bisogno del buio della camera oscura.
E così, anche in uno dei gesti ormai più frequenti del vivere quotidiano, continua l’imperitura battaglia tra luce e buio.
Non si vuole stigmatizzare l’arte del fotografare, o filosofare su tematiche che da secoli tengono banco nei salotti di esoteristi e filosofi, ma evidenziare l’uso che se ne fa ai nostri giorni della fotografia e di quella che ormai è diventata l’appendice del nostro copro, il cellulare.
Senza immortalarlo, non riusciamo più ad apprezzare un tramonto, diventa difficile godere del sorriso di un bimbo se non con il filtro di uno smartphone nelle mani, della gioia di un giorno felice. E nel frattempo, mentre siamo impegnati a fotografare qualcosa o qualcuno, ci perdiamo le emozioni di chi ci sta accanto di chi condivide con noi quei momenti unici a volte irripetibili, di quelle lacrime scese in silenzio e di quei silenzi che più di una foto lacerano l’anima.
Nella società moderna, l’esposizione continua alle «immagini in movimento… -fa- diventare ciechi, -fa- vedere con gli occhi degli altri, -toglie- lo spirito critico.» e confonde, rendendo complesso distinguere il virtuale dal reale, il mio sentire dal sentire altrui. Filmiamo tutto, fotografiamo e vediamo la vita attraverso il nostro telefono, accumuliamo immagini, ma perdiamo la possibilità di sentire proprio ciò che l’esperienza ci offre: il gusto, l’odore, il tatto, la sensazione di noi stessi in relazione agli altri. E mentre la natura ci parla a volte nel suo splendore creatore e altre nella sua potenza distruttiva, siamo li a dipingere quadri che mai appenderemo.