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venerdì 27 Dicembre 2024

venerdì 27 Dicembre 2024

“Il paese, libri e canzoni. La memoria privata diventa collettiva in Genius loci”

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genius loci
provino giusy nuova
giusi provino
10 minuti

Di Genius loci, tanto è stato scritto e detto da chi ha più titoli e meriti di me, quindi non ho nessuna pretesa di fare una recensione, ma alla “ spinsirata” volevo ringraziare Maurizio Padovano per questo prezioso libro.

Tutti concordiamo che è libro sulla memoria e io devo dirgli grazie perché ha riportato a galla pezzi della mia vita completamente dimenticata, io non ho il suo dono di serbare tanti ricordi. E così, grazie a lui, mi si riaffaccia il preside Spadafora, le sue guance rubizze, il racconto di quando giovane soldato del regno, mentre veniva portato in un campo di concentramento tedesco, in una delle tante stazioni polacche, riuscì ad affacciarsi dal treno e a chiedere in latino Panem obsecro vos. Immaginavo quella contadina imbacuccata in abiti scuri che gli passava una di quelle pagnotte rotonde e solo la chiosa finale sull’importanza del latino mi riportava alla realtà e mi faceva riflettere sull’importanza delle parole e sulla loro conoscenza. A casa avevo il racconto di mio nonno, stessa guerra, la scena stavolta si svolgeva in Friuli, aveva dimenticato il nome prezzemolo e così aveva passato tutto un giorno a peregrinare per Udine finché non aveva visto finalmente u pitrisinu , l’aveva portato alla moglie del capitano a cena finita, finì in cella per punizione. Non lo sapevamo, allora, ma la rivoluzione tanto sognata l’avremmo realizzata sui banchi di scuola.

Grazie anche per avermi ricordato quella sgradevole sensazione che si provava entrando al liceo classico, se eri il primo della tua razza che decideva di studiare. Una seconda pelle ti faceva fare piccoli respiri, lavorare il doppio degli altri e mai dimenticare da dove eri partita. Così la tua vita si divideva su due binari, i tuoi compagni di scuola e i tuoi amici con cui eri cresciuta e che cominciavano ad essere grandi perché lavoravano, chi al bar, chi dalla parrucchiera. Qualcuno grande non lo sarebbe diventato mai, caduto dal pontile il primo giorno di lavoro a 14 anni e quella faccia di bambino morto non la dimenticherò mai.

Con l’insegnante d’italiano io sono stata più fortunata, finita in un corso di nuova formazione, anche in questo avveniva la selezione, ricordo che cambiavamo ogni anno insegnante, fino a che non ho avuto il culo di incontrarne uno bravo, davvero bravo che cambiò la vita a me e alle mie compagne.
Si è detto che è un libro sulla lettura e sulla sua importanza:
“I libri non hanno peso, non hanno massa, non hanno volume – scrive Padovano – possiedono però, come le persone, altezza, profondità, ampiezza. devono produrle dentro di noi quelle dimensioni, altrimenti rimangono soltanto carta”

Ancora una volta qui la mia memoria s’intreccia con quella di Maurizio e risento l’odore della biblioteca del Liceo classico e poi di Villa Cattolica. Ricordo ancora la sacralità di quei luoghi e credo, anzi sono certa, che mi abbiano salvato la vita. Finalmente potevo lasciare i libri che mi prestava la sarta di mia madre, temo di essere l’unica ancora in vita ad aver letto i libri di Carolina Invernizio.

Non solo le nostre memorie s’incrociano ma anche le nostre vite spesso si sono incontrate, io e Maurizio ci siamo laureti lo stesso giorno, abbiamo fatto il concorso a cattedra lo stesso pomeriggio, entrambi abbiamo fatto gli insegnanti, lui per scelta io per necessità, abbiamo scelto come rifugio per la vecchiaia le Alte Madonie e last but not least quest’anno eravamo a Roma ad ascoltare Bruce Springsteen, le cui canzoni segnano un’altra tappa importante del libro.

Coincidenze, casualità, trovo più interessanti le somiglianze che ci legano agli altri.
A proposito di Genius loci, si è parlato di padri e della necessità di trovarli ed ecco spuntare Sciascia, il filo che cuce tutte le vicende del romanzo, così mentre lui si perde in Kermesse o nella lettura del Giorno della civetta io affondo nella Luna e falo’ di Pavese “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”.

Ogni tanto gli dico che dovrebbero nominarlo re di Bagheria, perché riesce raccontare di un passato nostalgico, ci dà una visione metapoetica che io stento ad immaginare, un luogo e un tempo raccontato anche in Testa di Ciaca.
“ È un sentimento che ho provato spesso, nella mia città, quando sono stato giovane. A tanti miei concittadini poco più vecchi di me ho guardato come a miti”

Così nelle sue pagine si anima la vita du Stratunieddu, con Ignazio Buttita che declama poesie e l’allampanato Giacomo Giardina con il suo vestito liso e sempre un quaderno in mano.
Ecco qua differiamo per sentimenti, io non provo nostalgia, per me all’epoca era già teatro, la realtà, una pancia molle divorata da lunghi vermi che avrebbero segnato il futuro di questa città. Mi mancano le campagne a ridosso di Corso Butera, l’odore della zagara o delle trombe d’angelo. Ecco mi manca il paesaggio che ci è stato rubato, dei baarioti pronti a svendere la loro storia ne avrei fatto a meno così come oggi farei a meno dell’odierna moda degli aranci amari.

Rabbia e nostalgia sono figli dello stesso amore tradito.
Bagheria non è mai stata tenera con i suoi figli migliori, ancora una volta le nostre memorie si dipanano come un solo filo, ed ecco spuntare Tom Di Salvo. A te parlava di Woodstock e dell’America lontana, io invece l’ho incontrato, quando facevo la giornalista e i suoi quadri erano rimasti bloccati al porto di Palermo per più di sei mesi in box di legno esposti alle intemperie, vittima di una burocrazia folle, scrissi diversi articoli per sollecitare l’ente porto a liberare quelle opere che, ora leggo, vengono esposte con grande successo negli Stati Uniti.

Non riesco a vedere nessun genius loci in questa terra, a stento ho trattenuto le risate la scorsa primavera quando, accompagnando una classe in visita alla Pinacoteca di Villa Cattolica, ho ascoltato una guida dire che l’Università di Palermo ha intenzione di studiare il genotipo del bagherese per capire la nascita di tanti talenti. Non credo neanche all’identità bagherese tanto di moda in questo periodo. Questo paese invece di autocelebrarsi dovrebbe fare un mea culpa collettiva se vuole sperare di avere un futuro.

Il romanzo, edito dall’Istituto poligrafico europeo, ripropone un intreccio tra memoria privata e pubblica, racconta la formazione di una generazione e quindi lo consiglio vivamente ai meno giovani, perché rischiano di ritrovare pezzi della loro vita e di commuoversi ogni volta che pronunceranno “ah vero è”.

Ai più giovani lo consiglio per comprendere meglio Bagheria che in una preziosa nota riportata nel libro viene così descritta da Sciascia “ B. è un grosso paese siciliano pieno di gente estroversa, intraprendente, acuta; per astuzia gli abitanti di B. sono famosi in tutta la Sicilia, forse l’Italia….. È un bel paese: ben tagliato, ricco di monumenti, circonfuso di limoni e di mare. Una mafia poco appariscente, e perciò molto seria. Qualche delitto d’onore. I rapporti fra le persone sembra vi siano franchi aperti: in famiglia, nelle amicizie e inimicizie, negli amori; ma la verità è che la vita del paese si muove come su due piani: uno enfatico e mistificatorio – dialogo, luce, festa – e l’altro chiuso e segreto, corroso da acre violenza e disperazione. È insomma il luogo in cui i due modi di essere della Sicilia, Catania e Palermo, il commercio e il feudo, il teatro e la solitudine, si ritrovano: ma appunto su due piani diversi, senza incontrarsi”.

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