di Giuseppe Martorana
Dopo la fine del primo conflitto mondiale, giocare al pallone era considerato un lusso; la prima squadra di calcio a Bagheria, infatti, era stata fondata intorno al 1919 proprio da studenti universitari appartenenti a famiglie facoltose: erano considerati i “figli di papà”. Chi non era benestante utilizzava scarpe in prestito o quelle già considerate vecchie o rotte da chi poteva comprarne più di un paio. I giocatori dovevano equipaggiarsi a proprie spese e ciò era un oroblema perché il materiale sportivo costava un occhio della testa. Le famiglie, comunque, non erano tanto favorevoli a incoraggiare i figli nella pratica del gioco del calcio, perché ciò li avrebbe distolti dallo studio. Non solo, ma il calcio non veniva considerato un’attività sportiva per ragazzi di buona famiglia.
Il decennio che precedette la seconda guerra mondiale vide anche svariati lavoratori dedicarsi all’attività sportiva: erano contadini, artigiani, fabbri ed operai di ogni genere. I genitori erano quasi tutti contrari perché il football, come ho detto, non veniva considerato attività ricreativa, ma un gioco nel senso più dispregiativo del termine, qualcosa di negativo, che distoglieva dalle sane attività lavorative e dal… sacro focolare domestico. Bisognava agire il più delle volte di nascosto, ma lo si faceva perché si aveva una grande voglia di giocare, specie quando c’era in ballo una sfida o una rivincita. Le droghe di quei tempi erano la vittoria, l’emulazione e il rispetto, cioè soddisfazioni morali. Con i nostri padri non si scherzava, perché a loro volta avevano ricevuto una ferrea educazione dai loro genitori, soprattutto del carattere e della volontà.
Un episodio, raccontatomi da Giuseppe Tomasello (1918 -2011), già descritto nella mia Storia del calcio bagherese, ha riguardato Pietro Martorana (1921- 1991), omonimo e cugino di mio padre, meglio conosciuto come Pitruzzu u firraru.
“In occasione di una gara amichevole disputata al campo Angiò – dice Giuseppe Tomasello – vidi arrivare suo padre, u zu Fulippu; sapevo che sarebbero stati guai per Pitruzzu e lo avvertii. Questi si allontanò dal campo in divisa sportiva, scappando attraverso la campagna circostante, per arrivare a casa prima di suo padre. Mi disse che questi non si era accorto di nulla, salvandosi così da una pesante punizione”.
Anche Domenico Saccone (1918 – 1999) mi ha raccontato delle difficoltà che si incontravano per partecipare all’attività sportiva organizzata. “Molto spesso si giocava contro la volontà dei nostri genitori o dopo avere lavorato una intera settimana, non per otto ore “scarse” al giorno, ma per oltre 14 ore, secondo l’attività di ciascuno di noi. Ricordo – dice Domenico Saccone – che una volta giocai senza essermi riposato dopo tre giorni continui di lavoro. Ero partito con il carretto da Bagheria il venerdì sera, sono arrivato a Sciara il sabato mattina, ho lavorato tutto il giorno, quindi sono ripartito con un carico di grano il sabato sera, arrivando a Bagheria la domenica mattina; di pomeriggio, senza essermi riposato, ho disputato una gara senza che risentissi minimamente della fatica e del mancato riposo, anzi ho giocato meglio del solito e questa volta con l’assenso di mio padre che, forse, volle premiarmi per quanto avevo fatto nei tre giorni precedenti.
Peppino Buttitta (1916- 1990), un altro forte giocatore degli anni ’30, tanto da essere paragonato al grande Meazza, mi ha raccontato un episodio che lo ha riguardato: “Spesso ero costretto a uscire di casa con molti espedienti; per non far capire a mio padre che andavo a giocare, mi accordavo con Giuseppe Tomasello, il quale “raccoglieva” le mie scarpe di calcio che poco prima avevo sistemato davanti la porta di casa, poi uscivo senza destare sospetti”.
Alcuni giocatori sono rimasti solo delle promesse, perché quando squadre di serie superiori, dopo averli scoperti, li volevano tesserare, i genitori si rifiutavano categoricamente.
A Pietro Prestigiacomo (1921 – 2001), portiere, attivo nel secondo dopoguerra, il padre, ostacolandolo in questa attività dilettantistica e ricreativa, un giorno gli disse con amara filosofia: “U palluni?…No, u zappuni”!
Anche Antonino Pintacuda (1905 – 1961) – come calciatore era inteso Mastrattaviu – mio maestro in terza elementare nell’anno scolastico 1945-46, ebbe una esperienza similare a quella di Prestigiacomo. Negli anni ’20, aveva fatto parte della prima squadra di calcio e si era subito messo in evidenza come uno dei migliori elementi. Nel ruolo di terzino era praticamente insuperabile, non solo perché impeccabile colpitore, ma anche per la robustezza del fisico. Il suo sinistro era formidabile e quando aveva l’opportunità di calciare a rete erano guai per il malcapitato portiere e… per i fragili pali delle porte. Non parliamo poi delle reti che spesso subivano l’affronto di essere violate due volte!
La sua fama arrivò sino alla squadra di calcio del Napoli che, dopo averlo visionato, aveva deciso di acquistarlo. Gli veniva offerto un favoloso stipendio mensile, ma i suoi genitori si rifiutarono categoricamente. Il padre, che era molto rigoroso, gli disse: “U palluni?… No, u vastuni”!
Erano altri tempi, altra mentalità, altre esigenze, sana educazione familiare, ridimensionamento dei propri desideri, amore di sé, rispetto dei superiori.
Era il calcio del puro dilettantismo che consentiva a tutti di divertirsi a condizione che fossero in possesso del materiale sportivo. La società offriva solo le divise che dovevano essere riconsegnate alla fine di ogni gara affinché un incaricato provvedesse alla loro pulitura e stiratura, pronte per la gara successiva.
Al contrario di ieri, oggi sono proprio i padri i primi tifosi dei figli e ne incoraggiano l’attività calcistica, perché se hanno stoffa e “riescono” è una bella soddisfazione morale giocare nella prima squadra cittadina; poi, poiché non è proibito sognare, forse un giorno potranno risolvere tutti i problemi della famiglia!…e della Nazionale!
Con questo scritto non voglio fare il raffronto con il calcio multimilionario di ora. Ognuno di noi è in grado di farlo e di esprimere il suo parere. Tutti sanno, infatti, che quando oggi si parla di calcio si allude a quello prettamente professionistico che, dovendo offrire spettacoli di alto livello, ha creato una vera e propria industria. Tra l’altro l’affermazione delle televisioni private con le nuove tecnologie ci consente di seguire, pagando e non pagando, seduti comodamente in poltrona, senza soffrire il caldo e il freddo, qualsiasi gara del calcio nostrano, europeo e mondiale.
Ciò, però, ha finito col dare una botta tremenda al calcio dilettantistico, quello che eroici appassionati anche oggi tengono in vita pagando di tasca propria, per disputare campionati del settore giovanile e delle serie inferiori (prima, seconda e terza categoria), perché dal Campionato di Promozione in su i costi di gestione cominciano ad essere molto più consistenti.
Per questo motivo, le società dilettantistiche devono ricorrere alle sponsorizzazioni che non è sempre facile trovare, vista la perdurante crisi nei settori edilizio, industriale e commerciale. Né c’è da sperare di ottenere contributi dalla Regione, dalla Provincia e dai comune che hanno i bilanci in profondo rosso.