In Sicilia c’era una volta il giorno dell’acqua e c’è ancora! Ma c’era puru il giorno senza acqua e mi rispiaci dirlo ma c’è ancora. Tutto cominciava la mattina presto, con quello strano vuciulizziu delle donne fuori dall’uscio di casa, quell’eco dei tubi asciutti. Scopa, secchi, bidoni, vasche e zuocculi di legno.
Ogni bagnina andava riempita. I tetti della Sicilia hanno i colori delle vasche di raccolta dell’acqua. Grigie o azzurre, ormai di plastica. Mia madre ha trascorso l’infanzia a trascinare secchi d’acqua per portarla due piani più su. Caricava secchi pieni d’acqua dalla fontana più vicina, le braccia stanche a fine serata. Era semplice: l’acqua arrivava alle fontane delle varie piazzette di Porticello. Una in Largo Roccapalumba, una ncapu a chiesa, nna piazzetta ra zza Cicca, ossia in Via Roma e qualche altra in prossimità di largo D’amato. Le donne di famiglia aspettavano e poi organizzavano il trasporto che avveniva alle prime luci dell’alba, alle volte faceva proprio buio. Infine si arrivava a casa e si cominciavano i suibbizza. La nostra vita era ed è scandita dal tempo dell’acqua. Da noi l’acqua è un ghiuòinnu si e unu no. Quando ero piccola io, a gestire quella enorme ricchezza era il “fontaniere”. L’uomo più potente del paese. Era lui a decidere quale valvola aprire per prima. Il “giorno dell’acqua” era quasi un giorno di festa. All’alba, perché la pressione dell’acqua era maggiore, ogni goccia di liquido andava usata con parsimonia nei giorni a venire. Fino al prossimo giorno dell’acqua. Per prima cosa si lavava la strada non asfaltata. Le donne pulivano il marciapiedi, l’ingresso delle case, scale e scaliddi. Picchì a cchiù pulita era chidda ca aveva u macciapieri lustru! Nel frattempo “si davano la voce”, chiacchieravano e il suono di quelle chiacchiere si espandeva da un punto all’altro del quartiere. La notizia che era arrivata l’acqua era velocissima ad arrivare in tutti i quartieri del paese. Era il giorno della pulizia, si lavavano le finestre, i pavimenti, si faceva il bucato. Una bacinella per insaponare i piatti e un’altra per sciacquarli. La lavatrice ai tempi di mia madre non c’era e quando arrivò comunque si usava solo nel giorno dell’acqua. Perciò il bucato si faceva a mano, nella cosiddetta “pila”. Quell’affare di marmo o pietra dura scavata con le scanalature per strofinare i tessuti. Lenzuola, mutande e tovaglie si lavavano con l’acqua bollente del gas. Mia madre ci infilava dentro le mani, nell’acqua bollente, e le tirava fuori rosse e ustionate. Poi sciacquava tutto nell’altra acqua, quella ghiacciata, e le mani le diventavano di nuovo rosse e ustionate.
Nel giorno dell’acqua, d’estate, si lavava anche la lana dei materassi e dei guanciali. Quello era un lavoro intenso. Con dita agili bisognava sciogliere i nodi, uno per uno, della lana. Bisognava stenderla bene, aprirla, lavarla e poi stirarla al sole. Quando era asciutta si rimetteva dentro i tessuti a fare nuovamente da materassi e cuscini. Anche rifare il letto la mattina era un bell’avvenimento. Bisognava ridare forma al materasso. Poi con l’acqua il “tempo dei pomodori” diventava uno spettacolo russu russu. L’intera terrazza diventava piena di scocce di pomodoro, e da dire che in mancanza d’acqua, saltavano i piani. Si rimandava tutto ad un altro giorno. Poi c’erano i pomodori secchi e la passata da stendere al sole. Diventavano “pummaroru siccu” e “astrattu”. Sul mio terrazzo ho visto tanti colori e odori stesi ad asciugare o a salarsi. C’eranu puru i saiddi salati ne lanni in terracotta chi balatuna di sopra per farsì ca iccassiru a salamuoia. Quando il fontaniere rigirava la manopola e l’acqua ritornava a stagnare nei tubi arrugginiti e semi asciutti la nostra vita tornava come prima. Quieta. Parsimoniosa. Austera. Si stava meglio quannu si stava peggio. Finalmente arrifriscò.
Baciamu li manu.
Anna Citta è una docente di Lingua e Letteratura Inglese. Vive a Porticello, un piccolo borgo marinaro. Ha due grandi passioni: il mare e il dialetto siciliano. Da circa 10 anni Si interessa di tradizioni popolari e di detti tipici del nostro dialetto, usi e costumi, proverbi e altro. Il suo è uno studio senza fine, una grande passione che coltiva nel tempo libero. Pensa che studiare una lingua sia il modo giusto per entrare nella vita della gente, per capire i sentimenti di un popolo e il loro modo d’essere, per sentirne gli odori, i sapori e conoscere il dolore della gente. Per questo ama la Sicilia e la sua sicilianità.