“Non gliene capiteranno più di nemici così, gliene è capitato uno e gli è bastato, se ne devono ricordare per sempre”: Totò Riina lo ribadisce spesso. Nessuno è stato più come lui. Deliri di onnipotenza di un vecchio indomito, al carcere duro da 20 anni, che si sfoga rabbioso con un altro padrino, Alberto Lorusso, boss della sacra Corona Unita con cui per mesi ha condiviso la socialità nel carcere milanese di Opera. “Ancora ne volete? – grida come se avesse di fronte i nemici di sempre, i magistrati – .Io vorrei incominciare di nuovo”. Col sangue, con le stragi, con i morti: “e allora organizziamo questa cosa! Facciamola grossa e dico non ne parliamo più”, dice a Lorusso.
Le spietate parole del boss di Corleone, intercettate per mesi dalla Dia, sono state trascritte e depositate agli atti del processo sulla trattativa Stato-mafia. Nelle ore di conversazione col co-detenuto un nome ricorre più frequentemente di altri: quello del pubblico ministero Nino Di Matteo, magistrato del pool che sostiene l’accusa nel processo sulla trattativa Stato-mafia in cui Riina è imputato insieme ad ex ufficiali dell’Arma, politici e capimafia. “Il pm che mi fa impazzire”, così lo descrive. “Come non ti verrei ad ammazzare a te… – sussurra – ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono… minchia ho una rabbia, mi sento ancora in forma, mi sento ancora in forma porca miseria”. “Di Matteo – continua – questo disonorato questo prende pure il presidente della Repubblica” (il riferimento è allo scontro tra la Procura di Palermo e il Quirinale sulle intercettazioni tra il capo dello Stato e l’ex ministro Nicola Mancino n.d.r.). “Lo sapete come gli finisce a questo la carriera? – dice a Lorusso – come gliel’hanno fatta finire a quello palermitano, a Scaglione (l’ex procuratore di Palermo ucciso dalla mafia”.
Parole dette a novembre scorso che hanno fatto saltare sulla sedia gli investigatori che, allarmati, hanno consegnato il video del colloquio intercettato al ministro dell’Interno Angelino Alfano, precipitosamente arrivato in Sicilia per una riunione del Comitato per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica in cui sono state potenziate le misure di sicurezza per Di Matteo. Riina sa dai giornali dell’innalzamento dei livelli della scorta per il pm e commenta: “Chissà quanti miliardi sui dispositivi di sicurezza”. Poi un cenno alla strage di Capaci, in cui venne ucciso il giudice Giovanni Falcone. “Loro pensavano che ero un analfabeticchio – dice – così la cosa è stata dolorante, veramente fu tremenda quando non se l’immaginavano”. Nelle lunghe conversazioni Riina si compiace per le stragi fatte. Cita quella in cui fu ucciso il capo dell’ufficio istruzione Rocco Chinnici, saltato in aria con un’autobomba davanti casa il 29 luglio del 1983. “Prima fanno i carrieristi a spese dei detenuti… poi saltano in aria quando gli succede quello che gli è successo”, dice.
Il boss accusa i magistrati di volere fare carriera sulle spalle dei detenuti e tuona contro il carcere duro. “Se venissi tra 1000 anni, verrei a fargli la guerra a quella legge”, dice alludendo all’istituzione del 41 bis. E mostra di sapere particolari riservati sulle iniziative in solidarietà di Di Matteo che stanno per prendere i pm della Procura pronti ad andare in udienza al processo sulla trattativa per manifestare sostegno al collega: notizia, dicono gli inquirenti, mai pubblicata sulla stampa ma presente solo nella mailing-list dell’ufficio. Poi sfoga la sua rabbia contro Matteo Messina Denaro, l’ultimo superboss latitante di Cosa nostra. Riina ricorda a Lorusso di averlo cresciuto, di avergli insegnato tutto. Ma il padrino trapanese, accusa il boss, pensa solo agli affari e si disinteressa di Cosa nostra. (gds.it)