Oggi sono tornato a casa alle quattro del mattino, una mezza dozzina di partite a bigliardino con gli amici, un paio di decine di Ceres. Davanti casa mia è sempre posteggiata quella vecchia Station Wagon grigio scuro che è spuntata all’indomani della pubblicazione dell’inchiesta. Non l’avevo mai vista una macchina del genere davanti al portone di casa mia, però vabbè – mi sono detto – questo non significa niente. Però poi è passato uno, due, tre giorni – sono passate una, due, tre settimane – e quella macchina è rimasta sempre lì. Con le ruote lievemente ruotate verso destra, sempre con la stessa identica angolatura, e sempre con lo stesso pacco di Malboro rosse poggiato lì, sul cruscotto. È passato più di un mese e niente, quella macchina resta lì, e nessuno viene, se la porta via e me la leva di davanti.
Ma dicevamo, l’inchiesta. Vi racconto dell’inchiesta. Io ho 35 anni e scrivo gratis da 20 anni nel giornale più piccolo e scarso del mondo. Ci sono entrato grazie a una raccomandazione di un noto politico locale. Il direttore è un immondo paraculo. Il vicedirettore è un tardone cocainomane. Succede un giorno che il noto politico locale si stufa della politica locale e decide di trasferirsi definitivamente in Thailandia – località da lui precedentemente frequentata per normale turismo sessuale – e ivi aprirvi una catena di lussuosissimi centri massaggi con personale rigorosamente minorenne. Succede pure che quell’immondo paraculo del mio direttore decide di farsi un mese di vacanza per andare a trovare l’ex noto politico locale di cui sopra usufruendo dei succitati benefici psicofisici garantiti dal suddetto personale rigorosamente minorenne della neonata catena di lussuosissimi centri massaggi. Succede nel contempo che – credo per una pura casualità – quel tardone cocainomane del mio vicedirettore si fa un week end ad Amsterdam ed è costretto, al ritorno, a stare una settimana a letto. Succede infine che, a causa di questa (credo) combinazione di coincidenze, io mi ritrovi a pubblicare, sul giornale più piccolo e scarso del mondo, e praticamente per sbaglio, un’inchiesta in quattro puntate sui rapporti decennali tra politica locale, imprenditoria e mafia all’interno del comprensorio di Bagheria e dintorni, in quella fetta di provincia che da Villabate, alle porte del capoluogo, passa per la costa est che porta a Messina – Ficarazzi, Aspra, Santa Flavia, Altavilla Milicia, Casteldaccia (località dove io risiedo) – inerpicandosi poi verso l’entroterra: Baucina e Ventimiglia di Sicilia.
Da quando ho pubblicato per sbaglio l’inchiesta mi sono accorto che ogni mattina, al bar, i soliti avventori che prima mi ignoravano adesso mi guardano in cagnesco. Sfogliano un Giornale di Sicilia tutto unto e bisunto, si fanno rapidi cenni tra loro, alzano sopraccigli, e mormorano. Stessa cosa quando mi faccio la mia solita passeggiata quotidiana, percorrendo una per una tutte le trecentodiciassette vie, vicoli, piazze e piazzette di cui si compone il centro abitato di Casteldaccia. Prima mi ignoravano, adesso mi guardano in cagnesco. E mormorano.
Un giorno ho beccato per strada nientemeno che Rocco Nerbo, famoso picchiatore di Casteldaccia, vero e proprio self made man della violenza. Un energumeno che – rissa dopo rissa – venne a suo tempo notato dalla famiglia mafiosa del mandamento di Bagheria dopo aver cambiato i connotati a quattro buttafuori davanti a una discoteca del lungomare. I buttafuori in questione – dopo il cambiamento dei rispettivi connotati – non vennero più riconosciuti dalla rispettiva cerchia di familiari, amici e conoscenti (i quali cominciarono a credere a una sparizione collettiva per mezzo di lupara bianca) e furono dunque costretti a formare una banda di briganti nelle campagne tra Pizzo Cane e Grotta Mazzamuto, finendo poi per essere sterminati dalla mafia nell’ambito della seconda guerra di mafia, giustiziati a colpi di lupara da killer prezzolati e gettati in pasto ai maiali, fino a realizzare la profezia autoavveratesi della lupara bianca. Partito dal basso, come abbiamo avuto modo di illustrare, Rocco Nerbo fece presto carriera come bruciatore di macchine, anneritore di saracinesche, incendiatore di pale meccaniche, posizionatore di teste di capretto, spalmatore di attack sulle serrature. Dopo la licenza elementare – brillantemente conseguita prima dei quarant’anni – divenne uno dei più abili scrittori di lettere anonime del paese. Fece pure un corso di origami per imparare a fare le croci di carta da allegare alle lettere anonime. Adesso gestisce una cooperativa sociale – a cui arrivano annualmente generose ma meritate sovvenzioni pubbliche – che si occupa di recupero di tossicodipendenti e in cui i soli tossicodipendenti recuperati sono i suoi tre fratelli, i suoi due figli e l’anziano padre, che però non è mai stato tossicodipendente e anzi si lamenta quotidianamente – passeggiando avanti e indietro in piazza Matrice – perchè lui voleva il campo di bocce.
Nonostante la sua sfavillante carriera imprenditoriale, però, Rocco Nerbo non ha perso la passione per le risse. Ed è per questo che il cuore mi è balzato in gola non appena mi si è parato davanti, per strada; è per questo che sono sbiancato dal terrore mentre si dirigeva a passo spedito e con gli occhi infuocati proprio nella mia direzione, pronto per lo scontro frontale. A quel punto mi sono fermato sul marciapiede, totalmente paralizzato, senza riuscire ad andare né avanti né indietro. Lui è venuto verso di me, mi ha incrociato, ha alzato un braccio grosso come un tronco e ricoperto da una fitta coltre di peli spessi e neri come fil di ferro, come a rompermi la testa con un pugno oppure a salutare qualcuno con un gesto festoso, ed è passato avanti. Io ho sentito il suo odore a metà tra il beccume di campagna e l’afrore da emergenza rifiuti – siamo ad agosto e Rocco Nerbo è celebre per farsi il bagno esclusivamente nel proprio sudore – e sono rimasto paralizzato credo per cinque minuti buoni. Infine mi sono girato e – ovviamente – non c’era più nessuno.
Cuore in gola e sbiancamento dal terrore, comunque, non mi sono rari dopo la pubblicazione dell’inchiesta. Tra paesane alzate di sopracciglia, paesane occhiate minacciose, paesani rapidi cenni e paesani mormorii, ogni gesto di ogni persona che non conosco in paese – ovvero la maggior parte della popolazione – nasconde per me un seppur sfumato doppio senso di minaccia di morte. Sussulto ogni telefonata che ricevo. Tremo ogni volta che il citofono suona. Smetto di respirare ogni volta che sento anche solo in lontananza il rombo di un motore o di una macchina che va un po’ più forte del dovuto. Una cosa è certa, ed è che ho il paese contro, dopo la pubblicazione dell’inchiesta, ed è un’ostilità che porterà di sicuro a un evento tragico o qualcosa del genere.
Il perchè l’ho capito presto. Quasi non esiste un solo abitante di Casteldaccia che non abbia un qualche tipo di legame con un qualche importante esponente di quella pastoia tra politica locale, imprenditoria e mafia che ho magistralmente descritto nella mia inchiesta in quattro puntate pubblicata quasi per sbaglio. O sono parenti di, o compari di, o amici di, o conoscenti benevoli di, o lavorano per, o hanno lavorato per, o sperano di lavorare per, o sono figli di chi lavora ha lavorato spera di lavorare per, o sono mariti o mogli di questi, o padri o madri di questi, oppure hanno ricevuto un favore di qualsiasi tipo da, o sono figli mariti mogli padri madri di qualcuno che ha ricevuto un favore di qualsiasi tipo da un qualche importante esponente di quella pastoia eccetera eccetera.
È una rete fitta fitta che io prima non vedevo forse perchè sostanzialmente non faccio parte del contesto di Casteldaccia. Il contesto, che cosa importante, non me n’ero mai accorto. Io appartengo infatti a quella triste schiera demografica composta da un qualchemigliaio di persone che sono residenti a Casteldaccia ma praticamente non sono abitanti di Casteldaccia. Sono gli “Strani”. Gli stranieri arrivati in paese negli ultimi vent’anni di espansione edilizia selvaggia. Impiegati pubblici, impiegati privati, insegnanti pubblici e privati, poliziotti, militari, professionisti e ferrovieri che usano Casteldaccia soltanto come dormitorio, che non hanno nessuna vita sociale in paese, che lavorano sopratutto a Palermo e che a Palermo vanno per fare qualsiasi cosa, a Palermo o altrove, di certo non a Casteldaccia, e che si sono comprati qui il proprio appartamento di 120 mq tutto su un piano all’interno di un complesso residenziale di ultima fabbricazione esclusivamente per la ragione che qui i prezzi delle case sono più bassi che in città.
Mio padre era uno di questi. Poi è morto giovane e ci ha lasciato una bella eredità. Mia madre marcisce a casa, tutta Uomini e Donne e Tequila Bum Bum, e io faccio lo spirito libero. Voglio fare il giornalista, lo scrittore, il regista cinematografico, il regista teatrale, il deejay radiofonico, il pittore, il performer, il pensatore, l’entomologo, il botanico, il semiotico, l’antropologo e organizzare eventi per sensibilizzare la cittadinanza sui valori dell’antimafia e la cultura della legalità. Non so cosa riuscirò a fare, di tutto quello che voglio fare – ho 35 anni suonati, ve l’ho già detto – però non mi posso lamentare, credetemi. E anzi, vi dico che nella mia cerchia di amici sono piuttosto invidiato. Stasera ad esempio, prima della mezza dozzina di partite a bigliardino e del paio di decine di Ceres insieme agli amici, mi sono fatto una bella fottuta. Mi sono andato a imboscare con una punkabbestia di Palermo conosciuta su Facebook. Gli ho fatto quelle due citazioni di Wittgestein e Lacan, ho messo quel cd di Tom Waits, e lei me l’ha data senza fare troppi problemi. La cosa mi ha piacevolmente sorpreso. Di solito il trio Wittgestein, Lacan e Tom Waits non producono simili risultati. Di solito bastano a malapena per un pompino. Però vabbè, meglio così, questa troietta me l’ha data, la fica ce l’aveva tutta depilata, la mia performance è stata buona, e le ho fatto dimenticare pure i cumuli di immondizia che stazionavano all’esterno del nostro abitacolo vaporoso e sudato. La location non è stata delle migliori, lo ammetto, ma – diamine – una bella fottuta è sempre una bella una fottuta. Comunque sia, l’ho lasciata presto a casa perchè lei all’indomani ha compito in classe. Poi sono andato a trovare gli amici, bigliardino e Ceres, e infine a casa. Le quattro del mattino. Davanti casa, già detto, c’è sempre la Station Wagon grigio scura, ruote verso destra, malboro rosse sul cruscotto.
Ma ecco che, neanche il tempo di prendere sonno, sono le sette del mattino, ecco che salto in aria, balzo dal letto, a causa di una grossa esplosione di cui il rumore assordante mi spacca i timpani. Neanche finisce l’eco del primo botto ed ecco il secondo, poi il terzo, infine un silenzio da elettrocardiogramma piatto, accompagnato soltanto da un sottile e prolungato fischio nelle orecchie. Resto un po’ nel letto a tremare, poi prendo il coraggio a piene mani e mi avvicino alla finestra per vedere cos’è successo.
Vado per affacciarmi proprio lì dove c’era la Station Wagon grigio scuro, dal punto preciso dove mi sembra venissero le esplosioni, e mi ritrovo fisse nella testa alcune immagini ripescate dalla memoria e che ora riesco a visualizzare con incredibile nitidezza: un cofano aperto spalancato sul ponte dell’autostrada A19 nei pressi di Capaci, una colonna di fumo nero in Via D’Amelio, le macerie in bianco e nero di Via Pipitone Federico.
Vado per affacciarmi pensando anche agli anni Ottanta, ragionando sul fatto che gli anni Ottanta sono stati per tutti gli italiani gli anni dell’edonismo reaganiano, del capitalismo rampante, degli yuppie con la carta di credito laminata in oro; gli anni della televisione commerciale, delle tette e culi in tv, di Drive In e Colpo Grosso, di Raffaella Carrà e di Gerry Scotti, di Vasco Rossi e Donatella Rettore, delle scintillanti convention socialiste, della bamba e dei cash, dell’amaro Ramazzotti, della Milano da Bere, degli happy hour, degli after hours, del fashion, del glamour, della disco, dei playboy romani, delle modelle straniere, dei soldi che giravano vorticosamente, del lusso esibito, ostentato. Penso che gli anni Ottanta sono stati per tutti una specie di sogno profumato, una sensuale allucinazione da oppio, una parentesi di idiozia e spensieratezza dopo la sfiancate serietà e l’agghiacciante violenza degli anni ’70.
Questi sono stati gli anni Ottanta per tutti – mi ritrovo a elucubrare mentre sto per affacciarmi per cercare di capire se con questo clamoroso attentato dinamitardo la mafia voleva ammazzarmi o semplicemente farmi spaventare, calcolando già quali saranno i vantaggi e le seccature della mia imminente vita sotto scorta, valutando sin da ora se la popolarità che certamente acquisterò a livello nazionale tipo Saviano varrà la pena di una vita senza libertà tipo Saviano – questi sono stati gli anni Ottanta per tutti tranne che per noi siciliani. Già, perchè i nostri anni Ottanta sono stati ancora anni di piombo, ancora anni Settanta, e il piombo si è mischiato al nostro sangue e forse ora scorre definitivamente dentro le nostre vene. Per noi gli anni Ottanta sono stati cose tipo: i killer con casco integrale che sfrecciano su motorazzi di grossa cilindrata e sparano con il kalashnikov; la giacca marrone, il dolcevita, il sigaro e il baffo di Luciano Liggio dietro le sbarre del maxiprocesso; il cadavere del cantante Pino Marchese con i propri testicoli ficcati in bocca dentro un bagagliaio in piazza Indipendenza; il sangue sulle strade; le lamiere contorte; i corpi incaprettati; il piede di Pio La Torre fuori dal finestrino; la faccia rivolta verso l’alto di Emanuela Setti Carrara.
Finalmente mi affaccio dalla finestra e vedo lo spettacolo. Ho una stretta allo stomaco e mi viene da vomitare. Cuore in gola e sbiancamento per il terrore. È tutto come l’ho lasciato, solo il cielo che è già chiaro, perchè è mattina, e un’aria frizzante che non conosco quasi per niente. Gli uccellini cantano. La melodia è quella della canzone “Tropical” di Paolo Conte, dall’ultimo album del cantautore piemontese. La Station Wagon grigio scuro è ancora al suo posto, stessa angolatura di ruote, stesso pacchetto di Malboro rosse sul cruscotto. Intanto continuano i botti. Sono quelli dell’alborata. È festa di paese. Viva San Giuseppe.
Me ne torno a dormire, figurandomi San Giuseppe nelle sembianze di un falegname che per campare fa il beccamorto da film western, di quelli tutti vecchi e decrepiti, con la barba bianca, il naso e le guance rosse di vino e un contorto senso dell’umorismo. Me lo immagino mentre fabbrica centinaia e centinaia di bare di legno, grezze e squadrate, di quelle che si vedono solo nei western. Me lo immagino mentre è concentrato nel suo lavoro, con un occhio semichiuso e un chiodo in bocca. Me lo immagino che martella e pianta chiodi e immagino il frutto del suo lavoro. E mi riaddormento pensando ossessivamente a tante, tantissime casse da morto.