L’estate lumacava scodinzolandoci sui banchi e la panza dello Zio Filippo emergeva tra i pelazzi dell’ombelico tra i residui antecedenti alla morte di Taninu u panellaru. Si capiva che ci sarebbe successo qualcosa in quei tre mesi di libertà che erano appena iniziati.
Il professore manco ci provò a tenerci ancorati ai banchi, si stette tutta la mattina a leggersi il giornaletto porno che aveva infilato tra le pagine del “Manifesto”.
La campanella si era allenata sin da maggio, giorno dopo giorno suonava sempre più presto, un minuto alla volta aveva guadagnato mezz’ora nel personalissimo fuso orario dello zio Filippo.
Alle 12 e 35 il trillo rimbalzò sui banchi e sulle lavagne in cui tutti avevano scritto i loro buoni propositi, in cui campeggiava l’impegno comune di infilare lo sfilatino in più fanciulle possibili, era quello uno dei pochi pregi nel frequentare l’istituto tecnico, essendo tutti maschi uno poteva tranquillamente puzzare, scoreggiare e fuggire dalla doccia quotidiana che quelli del Liceo dovevano farsi per convivere accanto ai brufoli delle verginelle. Noi potevamo saltare tutta la trafila ormonale e piazzarci subito in pole position con le donnine appena sbocciate.
Eravamo rozzi e bisognosi di cure e le donne vogliono sempre cucciolotto da crescere e svezzare. Se sei bello pettinato e profumato non attiri la pietà femminile, basta trascurare per qualche mese le più elementari norme igieniche per trovare un plotone di infermierine pronte a metterti in tiro.
O almeno così ci aveva detto Francesco Paolo rincoglionendoci ricreazione dopo ricreazione.
Noi ci affidavamo a lui che si vantava di aver visto più fiche di tutto l’ordine mondiale dei ginecologi messo assieme. Qualcuno malignava che poteva essere pur vero se si faceva rientrare nel computo tutte le fiche slabbrate stampate su carta su cui Francesco Paolo aveva perso la vista. Lui non si curava delle malelingue, si pettinava le sopracciglia con una spazzola d’acciaio fregata all’officina dello zio e si smerigliava qualche brufolo sparandosi un segone tra le pagine del manuale di informatica.
Francesco Paolo aveva organizzato tutta la nostra estate, in cambio di venti euro a testa ci avrebbe portato lì dove le fiche abbondavano vogliose. Lui era cresciuto a colpi di cinghia e bestemmie, suo padre gli aveva raddrizzato la schiena e i sogni e ora lui spiccava nel mucchio. Si faceva strada con intrallazzi e piccole estorsioni, gli piaceva cucire ragnatele di dissapori che servivano a ristabilire il suo ruolo di capo. Noi che manco avevamo il coraggio di andare all’edicola a comprare il calendario di Max lo veneravamo.
Era lucido e pratico nelle sue decisioni: forse un po’ squadrato ma con tutti quei colpi di cinghia e quei segoni non potevamo aspettarci di meglio. Noi eravamo una dozzina di sbarbatelli, così timidi da nasconderci dietro i brufolazzi che ci sfregiavano la faccia. Avevamo la voce bianchiccia, appena ingrigita da qualche incontrollabile tono basso. Per capirci, sembravamo i cugini di campagna con i pantaloni ancora più stretti.
Tutto l’anno avevamo risparmiato per riuscire a frequentare il prestigioso tour erotico che Francesco Paolo in un impeto di creatività aveva intitolato “La Mela Bucata”. Ciccio Spastico gli aveva chiesto delucidazioni sul nome. Ciccio era in grado di stare attaccato alla playstation per tredici giorni di fila, rimandando l’inevitabile evacuazione sino a diventare dello stesso colore della Preside che soffriva di una stitichezza incrosta-budella da quando aveva trovato suo marito che stantuffava una bambola gonfiabile ordinata sul sito della MariuzzAngel Sucking Cock Enterprise.
Francesco Paolo gli aveva risposto: “Hai presente la favola di Adamo ed Eva, il serpente, la mela e tutto il resto? Bene, io la vedo così: quella gran troiona di Eva stufa di quel paradiso voleva impiccantire la situazione con uno spettacolino hard, aveva chiesto aiuto al biscione che le aveva consigliato di usare la mela, Eva doveva alzarsi sulla punta dei piedi per acchiappare la melaccia che penzolava tranquilla dall’albero. E, nel farlo, doveva far vedere a quel gonzo d’Adamo uno sculettamento da manuale. La mela bucata si riferisce all’inevitabile conclusione della prima pornonovella della nostra cultura. Noi faremo pure così, bucheremo più mele possibili. Parola di Francesco Paolo, il leggendario Sfardamutande. O ci riesco o vi restituisco tutti i picciuli. Lo giuro su tua madre”.
A Ciccio Spastico ciondolava la testa, si figurava tutta la faccenda secondo la rigida logica dei videogiochi, uno sparatutto in 3D, lui aveva solo la sua mazza e una missione: soddisfare sino all’estasi più donne possibili. Avrebbe bucato almeno due dozzine di mele.
Francesco Paolo aveva avuto un’idea geniale: accodarsi al viaggio dell’oratorio. Con la sua parlantina spaccacoglioni era andato da Padre Barbone, un gesuita vecchio, sputacchiante e con le piattole. Al parrino s’era presentato come un peccatore bisognoso di sostegno spirituale, una pecorella sperduta che aveva taciuto per troppo tempo la sua giovane coscienza per dedicarsi con ardore a migliaia di atti impuri. Padre Barbone si grattò la minchia in segno di ammirazione, riversò un doblone di catarro nella sputacchiera e dette il suo assenso: Francesco Paolo e quelle altre dodici anime perdute potevano seguire la settimana di silenzio e preghiera.
Il vero obiettivo di noi tredici peccatori erano le tette delle quindici giovinette del dopocomunione, era una verità universalmente riconosciuta, le baciapile erano delle grandissime troione. E avevano dei capezzolini che frizzavano contro le magliette che il sudore appiccicava alla pelle, ne sentivamo l’odore a metri e metri di distanza.
E così siamo partiti con dieci scatole di preservativi a testa, male che vada li lanceremo pieni d’acqua su Francesco Paolo se ci tira la sola.
Perché sta cosa del viaggio della speranza incominciava a puzzare di marcio, il volpone era pimpante, con 240 euro in più in saccoccia aveva già messo gli occhi e una decina di spunti per seghe su Marcella, la stratettuta responsabile del ritiro spirituale. Era lei che doveva tenere separati noi maschi dalle sue bambine. Lei e le sue tette ce la mettevano tutta, tra noi e le fanciulle aveva messo pure due piani zeppi di gesuiti, il ritiro si svolgeva nella bella villa che un signorotto aveva lasciato in eredità ai gesuiti. Sei piani in stile liberty.
Francesco Paolo non l’avevamo mai visto così servizievole ed educato, s’era pure pettinato i peli del culo per fare colpo su Marcella che, da grande e consumata puttanona, agitava il suo potenziale erotico per far sfacchinare il poveraccio. Non sapeva più che fare per sedurla, aveva già speso più della metà del capitale nello spaccio della canonica dove il prete portinaio arrotondava le entrate vendendoci magnum e cuccioloni a prezzi astronomici. L’astinenza dai dolci era compresa nella settimana di silenzio e preghiera, quindi le trasgressioni dovevamo pagarle a caro prezzo.
Avevamo adocchiato le pupe giuste per noi, Ciccio Spastico aveva puntato lo sfilatino su Maria Eleonora che portava un vestitino fiorato semitrasparente che dopo una giornata di lavoro e preghiere le si attaccava addosso mettendo in risalto il suo fisico in piena fioritura, ogni volta che il vento le alzava di qualche millimetro l’orlo del vestito, Ciccio aveva un attacco, finiva a terra a incularsi i lombrichi per stemperare l’eccitazione. Il massimo della sua vita sessuale sino ad allora era stato sognarsi Lara Croft con le zizze appuntite che, a colpi di pistola, gli faceva saltare via i vestiti prima di saltargli addosso.
Luigi Sciddicato aveva scoperto che con la poesia riusciva a rincitrullire Luisetta che era piccola e pelosa, a ogni endecasillabo Luisetta si slacciava un bottoncino della maglietta, consapevole che passata una certa età i suoi peli sarebbero stati un ostacolo blocca-approcci.
E poi scoprimmo che almeno su una cosa Francesco Paolo non aveva mentito: pure le femmine hanno gli istinti sessuali. Eravamo sconvolti: anche loro erano un ammasso in ebollizione di ormoni e curiosità.
Proprio per questo Padre Barbone passava la notte a passeggiare per i corridoi, con gli occhi che ci spiavano nel buio insivato dei corridoi, pareva una civetta, passeggiava con le gambe magre magre arraspandosi la minchia e provocando un rumore che ricordava quando Vincenzo il Salumaio infilava i pezzi di cacio nella grattugia elettrica.
Passavano così le giornate, pregando, elemosinando stentate pomiciatine da consumare quando Padre Barbone andava a cagare dopo il pranzo. La notte c’era l’inevitabile segone collettivo per stemperare l’eccitazione accumulata durante tutta la giornata.
Padre Barbone già il secondo giorno aveva commesso il suo primo errore. Colpito da come Francesco Paolo lavorava senza mai lamentarsi, sottoponendosi ai lavori più schifosi, tra cui spiccavano le spugnature a Padre Cosimo, che puzzava di vecchie scoregge e, quando lo bagnavi, puzzava ancora di più. Padre Barbone fu tanto sorpreso che senza pensarci si grattò per bene e nominò Francesco Paolo nostro responsabile.
Restammo tutti alluccuti: cercavamo una fessura per farci strada e Padre Barbone ci aveva aperto nientemeno che un traforo.