di Martino Grasso
Per la prima volta, qualcuno ha deciso di rievocare la stagione del 1982, quando nel tristemente famoso triangolo della morte che comprendeva i comuni di Bagheria, Altavilla Milicia e Casteldaccia, vennero uccise 15 persone dal 3 al 12 agosto di quell’anno.
A farlo è lo scrittore Giorgio D’Amato, 46 anni, con il bel libro “L’estate che sparavano“. Il libro racconta quei giorni attraverso gli occhi ingenui di due ragazzi adolescenti. Il libro da alcuni giorni è nelle librerie. Cosa ha spinto dopo 30 anni ad occuparsi di qiesta storia?
“Nel 1982 avevo sedici anni -dice Giorgio D’Amato- , quell’estate trascorrevo le mie giornate a Casteldaccia, lì vivevano gli amici che frequentavo. A casa mia il Giornale di Sicilia non mancava mai, leggevo le cronache e ascoltavo le persone, c’era preoccupazione: sentivo l’aria pesante, che i delitti non erano fatti isolati ma parte di un progetto più grande che coinvolgeva tutti noi che vivevamo attorno a Bagheria, Casteldaccia e Altavilla, sembrava di essere nel centro di un grande mirino che puntava i tre paesi che i giornalisti definirono “triangolo della morte”. Per anni ho avuto il desiderio di approfondire i fatti di quell’agosto, capire perché certe persone finirono per terra con delle pallottole in corpo oppure strangolate. Ho iniziato un lavoro documentale partendo dagli archivi de L’Ora e del Giornale di Sicilia, passando per i faldoni del Maxi-processo, intervistando – tra tante difficoltà -, persone che mi hanno fornito impressioni, informazioni, emozioni, parole efficaci.”
Il libro narra le vicende di due adolescenti in questo clima di morte.
“Il romanzo si sviluppa su due linee: la ricostruzione cronologica dei fatti dell’agosto 1982 e la vicenda amicale di due ragazzi che, girando con il motorino, vivono le vicende tragiche prima che vengano pubblicate sul giornale. I due ragazzi, ricalcando un po’ la mia vita durante quelle giornate, trascorrevano il loro tempo leggendo libri, andando alla Rotonda o all’Arena Paradiso – sono due studenti che cercano nei romanzi o nei film ciò che la realtà non gli offre, sono due studenti con un diverso senso di attaccamento al territorio: uno dei due – Antonio – sa cosa vuole, non vede l’ora di andarsene a Roma, l’altro invece, senza saper addurre una vera motivazione, finirà per restare. È il legame con il territorio – ‘u raricuni – l’oggetto del romanzo.”
L’aspetto interessante è che vengono rievocati, in maniera fedele, le drammatiche notizie di cronaca.
“Nella narrazione mi sono attenuto alle cronache dell’epoca, mi sono documentato facendo ricerche tra atti di processo, ho cercato fonti che descrivessero i protagonisti di quei giorni nella loro vita quotidiana, nel loro modo di approcciarsi agli altri. Ho usato i nomi e i cognomi senza mascherarli e rispettando le fonti, ma sono volutamente andato oltre sotto il profilo della resa dei personaggi – e questa è la grande potenza della narrativa rispetto al giornalismo -: ho cercato di creare delle figure a tutto tondo che non avessero la banale colorazione morale del bianco o del nero ma tutti i toni del grigio – ho evitato di entrare nel meccanismo facile di rappresentare un boss come un personaggio cattivo alla Walt Disney. “La mafia è fatta da uomini, quindi da esseri come noi”, diceva Giovanni Falcone: con questo spirito ho cercato di trattare le persone che hanno movimentato le cronache di quei giorni cercando debolezze, paure, timori che ho desunto dai piccoli dettagli del loro comportamento così come traspariva dal materiale che ho avuto a disposizione.”