Argo è la storia vera di un salvataggio: quello di sei diplomatici statunitensi durante la rivoluzione iraniana del 1979 che porterà al potere l’ayatollah Khomeini e alla costituzione della repubblica islamica. Il film si apre con la folla che protesta fuori dall’ambasciata americana a Teheran per il sostegno dato dagli Stati Uniti allo scià Mohammad Reza Pahlavi- che non era proprio uno stinco di santo- che nel frattempo era fuggito riuscendo a trovare rifugio proprio negli States.
La tensione è fortissima e la folla riesce a scavalcare muri e cancelli prendendo in ostaggio 52 diplomatici americani che resteranno prigionieri, con alterne vicende, per oltre 400 giorni. Nella confusione del momento, sei di loro riescono a fuggire rifugiandosi nella residenza dell’ambasciatore canadese. Si comprende subito che è una situazione precaria e pericolosa e i servizi segreti americani decidono di farli rientrare in patria. Per organizzare il tutto viene chiamato Tony Mendez, esperto in “exfiltrazioni”-brutto termine per dire fuga in incognito- e per il quale, il regista e attore Ben Affleck, si è ritagliato il ruolo da protagonista. Il bravo agente della CIA riesce ad approntare un incredibile piano: fingere che i sei facciano parte di una troupe cinematografica che si trova in Iran per girare l’ennesimo film di fantascienza d’ambientazione esotica, Argo, appunto. Diviso tra ansie e responsabilità della sua delicata missione, Mendez si fa assistere nel compito da due aiutanti, un truccatore e un produttore di Los Angeles: il duo John Goodman e Alan Arkin, davvero azzeccati nel ruolo di cinici esponenti del mondo patinato di Hollywood. Il finale vede la buona riuscita dell’impresa con una fuga al cardiopalmo.
Affleck, oltre a dare una buona prova di recitazione efficace e minimalista (in effetti l’espressività non era mai stata il suo forte) da regista riesce a girare un film meta-politico dosando bene le tensioni degli Stati Uniti e gli eccessi dell’estremismo islamico senza cadere nella tentazione di demonizzare il nemico e creando la tensione e la suspense necessarie. Eccellente la descrizione minuziosa di quegli anni a cavallo tra settanta e ottanta non solo, ovviamente, nei costumi e ambientazione ma finanche nel modo di rapportarsi e di agire dei protagonisti che, malgrado siano attori provenienti dal mondo delle fiction americane (ma forse proprio in forza di questo) riescono molto bene nel ruolo. Anche i colori della pellicola ( girata in 35 mm e non in digitale) riescono a far entrare ancora meglio lo spettatore nell’atmosfera e nell’umore di quegli anni.
Il film, premio Oscar come miglior film, oltre che migliore sceneggiatura non originale e montaggio, riesce dunque a far conoscere una storia, tenuta nascosta dai servizi segreti fino alla fine degli anni novanta e che, successivamente, ha ispirato un libro dal quale è tratto il film di Affleck, davvero molto interessante. Storia che, per la verità, sacrifica alle esigenze cinematografiche alcune verità (chi ha la pazienza può leggersi su internet il Canadian Caper cioè il dossier sulla vicenda) tra cui la presenza di un aiutante che si recò con Mendez in Iran e di cui non vi è traccia nel film e il ruolo del Canada nella liberazione degli ostaggi che fu ben maggiore rispetto a quanto appaia nella pellicola filo statunitense, di Affleck. Ma detto questo, al suo terzo film da regista, dopo Gone Baby Gone e the Town, accolti piuttosto tiepidamente dal pubblico, Ben Affleck riesce a ritagliarsi un posto tra gli autori più interessanti del momento, realizzando un buon lavoro di sintesi tra l’azione tipica del cinema politico e di spionaggio e le vicende storiche del recente passato ancora purtroppo molto attuali e non risparmiando frecciatine all’establishment hollywodiano. Davvero sorprendente.