Interessante intervista rilasciata dal regista bagherese Giuseppe Tornatore, alla giornalista Ilaria Ferretti, durante l’ultima edizione del festival di Venezia.
Nel corso dell’intervista pubblicata sul sito Mow, Tornatore parla di Bagheria e del suo immenso amore per il cinema.
Lei è di Bagheria, città di Guttuso, set de Il Gattopardo di Visconti e logicamente del suo film Baarìa. In un’intervista ha detto: “La parola Baarìa è una formula magica, una chiave, da questa si puoi imparare ciò che il mondo intero non saprà mai insegnarti”. Cosa vuol dire?
“La parola “Baaria” mi ha accompagnato da sempre, ben prima che ne avessi coscienza o consapevolezza. È stato un suono decisivo, in questo senso una chiave per aprire qualunque serratura. E, soprattutto, il nome del paese dove sono nato e cresciuto, in cui ho trascorso molti anni della mia vita, e dove la mia educazione si è formata. Tutto quello che di buono e di meno buono fa parte del mio carattere e ha segnato quello che io ho fatto nella mia vita in qualche maniera è condizionato e influenzato dall’essere nato in quel posto lì. In questo senso dico che in quel luogo puoi imparare ciò che il mondo non riuscirà mai a insegnarti ma probabilmente questo discorso vale per ciascuno di noi. Il luogo in cui nasciamo e cresciamo ci forma molto, da lì impariamo a scegliere in che parte del mondo andare. È il luogo in cui siamo nati che segna definitivamente il nostro modo di fare e anche il nostro modo di saper avventurarci nella vita.
Quando si è reso conto della potenza che questa città ha avuto nella sua vita e nel suo lavoro?
“Credo di averlo capito definitivamente solo dopo essere andato via. Sono partito all’età di 27 anni, tutto sommato tardi. È stato quando ho iniziato a fare i primi film e a vivere le prime esperienze decisive della mia vita e carriera che ho compreso che il mio modo di fare, nel bene e nel male, era segnato nel bene e nel male dal fatto di essere nato e cresciuto lì. Il mio modo di ragionare era sintonizzato con quel contesto, e me ne accorgo ancora oggi. Quando mi rendo conto di essermi comportato bene in una determinata situazione, capisco che è grazie all’educazione che ho ricevuto, perché mia madre, mio padre e il contesto in cui sono vissuto mi avevano dato gli strumenti per agire in quel modo. Allo stesso modo, quando riconosco di non essere stato all’altezza in qualcosa, capisco che quel limite proviene sempre da quel contesto, dall’aver ricevuto un’educazione che invece non è stata capace di darmi tutti gli strumenti. Si è attrezzati, ma non per tutto.”
Quest’anno durante il festival del cinema è stata inaugurata la mostra su Marcello Mastroianni, protagonista del suo film Stanno tutti bene del 1990. Com’è avvenuto il vostro incontro? E cosa le manca di più del grande attore?
“La sua ironia, la sua disponibilità, il modo in cui ti faceva sentire come se lo avessi conosciuto da sempre, come se fossi sempre stato suo amico: tutto questo manca, perché è raro da trovare. Era già difficile incontrare persone con queste qualità quando lui era ancora con noi, e oggi lo è ancora di più. Lavorare con lui durante le riprese del film è stato come proseguire una frequentazione che, in un certo senso, era già iniziata attraverso i suoi film. Curiosamente, anche da parte sua c’era lo stesso atteggiamento: per lui sapere che avevo visto molti dei suoi film gli dava la sensazione che ci conoscessimo da tempo. Era un’amicizia mediata dal cinema.”
Nei suoi film parla spesso di legami interrotti, di rapporti che forse non possono o non riescono a stare al mondo. Penso soprattutto a “Nuovo cinema paradiso”, “La migliore offerta”, “La corrispondenza”. Come mai le interessa così tanto questo tema?
“I rapporti interrotti, le amicizie perdute, le relazioni infelici sì, sono temi che mi hanno sempre attratto. Anche senza volerlo, diventano ricorrenti nelle mie storie, quasi senza che me ne accorga o ne sia consapevole. Un’amicizia o un amore, che non ha un approdo e svaniscono, sono pretesti per esplorare a fondo la natura umana. Sono contesti particolarmente significativi, lenti di osservazione che permettono un’analisi più profonda dell’essere.”
“La migliore offerta” è la storia di un banditore d’aste. Come mai ha deciso di trattare proprio il tema del mercato dell’arte, di cui non parla mai nessuno?
“L’idea di esplorare il mondo dei banditori d’aste non era il punto di partenza. In realtà, è stata una scelta quasi obbligata, dettata dall’arte di costruire una storia e dall’artigianato della sceneggiatura. Anni prima, avevo iniziato a sviluppare un’idea che mi portavo dietro da molto tempo: la storia di una donna affetta da una paranoia ineffabile di non riuscire a uscire dalla propria stanza, salvo quando l’appartamento era vuoto. Ho lavorato a lungo su questa idea, ma non riuscivo a svilupparla in modo convincente. Ho preso in considerazione diverse possibilità, ma nessuna mi entusiasmava davvero. Poi, anni dopo, ho cominciato a ricevere, non so come, dei cataloghi d’aste, uno al mese. La mia segretaria mi chiedeva come mai, e io, inizialmente, non ne ero particolarmente attratto. Tuttavia, al quarto o quinto catalogo, ho iniziato a sfogliarlo e mi ha incuriosito la descrizione dei lotti. Una semplice sedia veniva presentata come se fosse la più bella della storia dell’umanità. E così qualunque mobile o opera pittorica. Mi affascinava il linguaggio usato per descrivere gli oggetti.”
Sappiamo che lei è un noto cinefilo. Quali sono i riferimenti cinematografici che più hanno ispirato i suoi film?
“So che tutto il cinema di cui mi sono nutrito da bambino, ragazzo e anche adolescente ha rappresentato il nutrimento che ha formato e condizionato il mio modo di vedere le cose dal punto di vista cinematografico. Non c’è un unico punto di riferimento specifico, ce ne sono infiniti, e non riesco a identificarne uno solo.”