Ne discutiamo a partire dalla pubblicazione “Il discorso del Sindaco” di Pietro Belvedere dalla quale non solo emerge una figura di sindaco sconosciuta ai molti, ma anche una vicenda particolare nella storia delle amministrazioni comunali della città di Bagheria.
Nelle elezioni amministrative del novembre del 1964, una lista civica di professionisti, artigiani, esponenti della società civile, guidata dal medico Pietro Belvedere, cattolico e dal 1945 consigliere comunale della DC, risultò terza dopo la DC e il PCI con i suoi 1629 voti. Il programma di questa lista si faceva portatore di istanze di radicale cambiamento. Non riuscendo a trovare l’accordo sul sindaco da eleggere all’interno della coalizione di centro sinistra che aveva guidato il Comune, Pietro Belvedere fu eletto sindaco con una maggioranza alternativa risicata. Problema emergente era l’approvazione di un Piano Regolatore per arginare l’abusivismo edilizio che, come a Palermo, era sfociato in un vero sacco distruttivo del patrimonio architettonico storico con l’assalto alle aree attorno alle ville settecentesche.
Problema di non secondaria importanza fu, e lo è sempre, la questione morale come presupposto alla programmazione di un progetto e di una azione da realizzare con responsabilità morale e politica dei futuri amministratori. I capisaldi di questa morale politica sono innanzitutto la ricerca del bene comune e la salvaguardia delle libertà democratiche. È evidente che la libertà da ogni forma di ricerca di interessi privati o di gruppo o di partito, di mafia, di clientelismo, di corruzioni varie, deve connotare l’amministratore politico. L’esperienza di rottura del sindaco Pietro Belvedere nel 1964-65 si verificò con un accordo che, estromettendo il partito democratico cristiano dalla direzione del Comune di Bagheria, metteva insieme forze politiche di opposizione “non per affinità ideologiche, quanto piuttosto per necessità amministrative”, e vedeva per la prima volta anche il gruppo comunista nella Giunta di governo della città. Fu chiamata Giunta popolare. Questa varietà di forze non poteva che trovare il suo punto di condivisione, secondo il sindaco, “nel quadro di una vera quanto valida azione moralizzatrice in tutti i settori della vita amministrativa, senza la quale qualsiasi sforzo sarebbe destinato a sicuro fallimento”. È per questo motivo che il discorso programmatico del sindaco Belvedere insiste non su un moralismo spicciolo, ma su un impegno di responsabilità morale dei consiglieri “eletti dal popolo non per risolvere o per tutelare gli interessi propri, di parenti o amici, bensì per sollevare, affrontare e risolvere i problemi che riguardano interessi di tutti i cittadini”. Belvedere voleva che nascesse anche una responsabilità morale condivisa dei cittadini, che cioè si impegnassero a non chiedere cose impossibili e tanto meno illecite agli amministratori, liberandosi da un rapporto di tipo clientelare. Da parte degli amministratori il cittadino doveva attendersi “la soluzione dei problemi del paese in una atmosfera di giustizia sociale”.
È interessante il contesto in cui il richiamo di Belvedere alla morale politica veniva diffuso perché cominciava ad emergere, già negli anni 50, un diffuso disagio nell’associazionismo di base del mondo cattolico, come l’Azione cattolica o le Acli, nei confronti della piega negativa che prendevano le lotte interne al partito democristiano, la questione morale, la partitocrazia, il particolarismo politico, il clientelismo, il voto di scambio. Non mancava l’intervento dei vescovi sulla crisi morale nei rapporti sociali dovuta a una “inesauribile fame di denaro da cui provengono intrighi, frodi […] malversazioni nelle private e nelle pubbliche amministrazioni, nell’assegnazione e approvazione di pubblici lavori”, come nel 1955 denunziavano Peruzzo vescovo di Agrigento o il settimanale della diocesi di Palermo, Voce cattolica del 1 giugno 1958, che metteva in guardia che “la politica non può mai diventare una carriera o lo strumento per raggiungere scopi privati, se non si vuole tradire il voto ricevuto”. Non erano da identificare comunque i cristiani con i democristiani, scrisse Nino Barraco su Voce cattolica il 20 luglio 1958. La politica doveva essere esercitata come servizio: lo Stato non è mezzadria, aveva scritto don Luigi Sturzo.
Analogie con l’esperienza di Silvio Milazzo del 1958 le troviamo nella rottura attuata da Belvedere e ulteriori consonanze emergono con l’azione riformatrice del presidente della Regione Giuseppe D’Angelo, democristiano, che il 30 marzo 1962 riuscì a fare approvare dall’Assemblea regionale la richiesta al Parlamento nazionale di istituire la Commissione Parlamentare sulla mafia. D’Angelo, saldando la coscienza religiosa con l’etica politica, voleva che l’inchiesta parlamentare fosse accompagnata “da una grande mobilitazione dello spirito pubblico” non solo per la lotta alla mafia, ma anche per la realizzazione di un processo di moralizzazione di tutta la vita politica liberata da clientele e da comitati di affari. Concludendo in Assemblea il 29 marzo 1962 il suo discorso nel dibattito sulla mafia, D’Angelo dichiarò che questo processo di moralizzazione dell’azione politica era una scommessa se si voleva creare una nuova coscienza civile che trovassse “la sua radice in un più intransigente rigore morale che renda impossibile il rifiorire di attività criminose associate, in una parola, di una nuova mafia più moderna e più agguerrita”.
Il sindaco Belvedere, come Giuseppe D’Angelo, era consapevole che nell’esigere dai responsabili della vita amministrativa una forte connotazione di etica politica non stava facendo “una predica”, ma “tratteggiare i presupposti per una fattiva e sana amministrazione”. E che il suo discorso non voleva essere una predica ne è prova la seconda parte delle sue dichiarazioni programmatiche da sindaco, nel quale propone un programma amministrativo molto articolato del quale si può anche oggi discutere analizzandone le proposte, pur non sapendo noi in che modo esso sarebbe stato poi realizzato dalla Giunta popolare. Quella sera stessa del 19 febbraio 1965, dopo aver fatto approvare dal Consiglio comunale la Commissione d’inchiesta sui lavori pubblici (dalla quale emerse poi anche in sede legale il “sacco di Bagheria” simile a quello di Palermo), il sindaco Belvedere si dovette dimettere e con lui la Giunta popolare perché a causa delle dimissioni dell’unico democristiano secessionista della sua Giunta era venuta meno la sua risicata maggioranza. Rimase approvata comunque la costituzione della Commissione d’inchiesta come una sfida al cambiamento. Non ci fu però, nel Consiglio comunale, il coraggio del cambiamento moralizzatore.