Sin dal nascere della scuola pubblica nel nostro paese – sto parlando dell’anno scolastico 1829-30 – si creò molto entusiasmo nelle famiglie anche di quelle, in realtà poche, che avrebbero preferito continuare a mandare i figli ad apprendere i mestieri presso gli artigiani locali o seguire i padri nei campi o nelle loro botteghe. Mandare i figli a scuola, del resto, non era obbligatorio. La legge sulla pubblica istruzione del governo borbonico prevedeva – come ho scritto in altri pezzi – la scuola primaria e secindaria (prima e seconda classe elementare solo maschile). Le femmine, per essere educate nei lavori donneschi, potevano frequentare il Collegio di Maria. Il funzionamento delle scuole, compreso lo stipendio dei maestri, era a totale carico del comune.
Sin da subito si ritenne che fosse cosa giusta e incentivante assegnare dei premi agli alunni più meritevoli e ai più volenterosi e assidui nella frequenza.
Gli alunni premiati appartenevano di solito alle famiglie bene del paese; anche la maggioranza degli altri frequentanti faceva parte di quell’elite cittadina che poteva permettersi di non mandare i figli al lavoro e, dopo le elementari, di mandarli nelle scuole di Palermo per continuare gli studi. Tutti gli altri, quelli appartenenti a famiglie povere che non potevano permettersi il diritto allo studio, rimanevano in balia dell’analfabetismo con tutte le conseguenze immaginabili.
Scrive padre Francesco Michele Stabile, parlando di quel periodo: “Poiché nelle famiglie non si pensava ad una ricchezza che non fosse quella proveniente dalle attività agricole e commerciali, diventava difficile distogliere i figli dalle attività lavorative per indirizzarli agli studi”. Ciò succedeva anche in alcune famiglie abbienti. A Bagheria, in realtà, regnavano l’ignoranza e la rozzezza, tanto che “alcuni amministratori comunali -conclude padre Stabile – non erano in grado di mettere la firma” (1).
Invero, nel verbale del Decurionato del 10 agosto 1858, ma anche in altri deliberati, due dei quindici componenti – Francesco Paolo Di Pasquale e Carlo Raineri – dichiararono di non sapere sottoscrivere il verbale della seduta (ASP – Busta 1702 Intendenza). Altri decurioni, a modo loro, apponevano la firma sui verbali delle sedute, ma più che di firma si trattava di un ghirigoro paragonabile a un elettrocardiogramma.
In quegli anni molti cittadini erano costretti a mettere il segno di croce sugli atti in cui era obbligatorio apporre la firma, il che era umiliante e avvilente. Fortunatamente l’intelligenza e l’inventiva della nostra gente facevano pesare meno l’essere non alfabetizzati. E qui non posso non riferire di quel mattacchione, analfabeta, che su un documento da firmare si dice che abbia messo tre segni di croce! E al funzionario preposto che gliene chiedeva la spiegazione abbia risposto che i tre segni indicavano il nome, il cognome e… il titolo di studio!
Il nostro comune utilizzava un timbro, che veniva stampigliato sugli atti, con la scritta SEGNO DI CRO ….CE di………………. (nello spazio tra CRO e CE si apponeva detto segno che a volte sembrava il simbolo dell’addizione o della moltiplicazione o la Croce di Gesù Cristo).
Due testi che sapessero firmare ne confermavano la veridicità. L’atto finale doveva essere controfirmato dal funzionario addetto.
Lo scopo fondamentale per chi andava a scuola era appunto quella di imparare a mettere la firma. Era la prima cosa che chiedevano gli adulti quando s’iscrivevano alle scuole serali, sia pubbliche, sia private; se poi fossero riusciti a leggere, a scrivere e a far di conto, tali risultati sarebbero stati considerati lusinghieri e incoraggianti.
Anche il poeta Pietro Maggiore, parlando della scuola del passato, affronta l’argomento: “Nella prima metà dell’Ottocento a Bagheria operavano già due tipi di scuola: una gratuita – a scola franca – vincolata all’orario antimeridiano e all’età dei ragazzi; l’altra a pagamento – a scola pajata – libera da vincoli di orario e di età. Stranamente la seconda era la più frequentata e, specialmente la sera, si potevano vedere tra i banchi ragazzi di ogni età, lenti ad apprendere perché stanchi di una giornata di lavoro. La scuola a pagamento di solito era guidata da uomini di grande polso e carattere, ma di scarsa cultura. D’altronde il loro compito si limitava ad insegnare a far di conto, leggere e scrivere quanto basta per farsi capire e mettere la firma. Per i più piccini, con pochi spiccioli e qualche uovo c’era “a mastra”: una signora di buona moralità che accoglieva nella propria casa i ragazzi, ne curava l’educazione e li teneva buoni con favole, filastrocche e canti popolari”(2).
- In Atti del Convegno su Padre Castronovo, pagina 34.
- In opuscolo Giuseppe Bagnera tra memoria e aneddoti, pagina 9.