I fimmini avevano un ruolo importante sia nell’ambito familiare che nell’ambito lavorativo. La donna, innanzitutto, era figghia e matri e doveva rispettare prima il padre e poi u maritu. Dopo il matrimonio chi aveva il potere era il marito. Almeno accussì avièva a ièssiri! Ma le nostre donne gestivano tutta l’economia familiare. Cumannavanu iddi, nzamaddiu quaiccunu parrava!
La donna generava figli e li cresceva sola senza un aiuto perché il marito non c’era mai a causa delle ‘nisciute’ di pesca in alto mare, verso il mare d’Africa. L’educazione familiare spettava alla donna, era lei che si occupava anche di far quadrare i conti. La povertà era tanta allora, molti non avevano neanche il pane e spesso si andava a letto senza cibo. Molti si liccavanu a saidda (condizione di difficoltà economica). Le mogli dei pescatori lavoravano le reti e spesso si occupavano di ricucirle dopo che erano state strappate da qualche pesce grosso. Spesso la donna, figlia di un pescatore, sposava un uomo del suo ceto e la maggior parte dei matrimoni si svolgevano all’interno delle famiglie dei pescatori. Non dimentichiamo i matrimoni tra cugini che spesso servivano per mantenere ben saldo il patrimonio familiare ossia la barca e le reti, questo era il loro tesoro. Da noi questo tipo di matrimonio era di usanza. Anticamente tre o più famiglie di pescatori vivevano sotto lo stesso tetto. Si trattava, addirittura, di una quindicina di persone, c’era il nonno, il figlio con moglie e figli e qualche nipote ‘fuiuta’, scappata con il fidanzato, che viveva con loro. Classica famiglia patriarcale e chi comandava era u ‘patri’ o il capobarca. Ma, e dico ma, sicuramente la moglie cumannava chiòssai. La fuitina, a quei tempi, era quasi d’obbligo per quelli che non avevano come organizzare un matrimonio alla grande. Insomma pi chiddi che non avevano picciuli. Dai racconti dei vecchi pescatori emergono episodi addirittura divertenti. Una volta un anziano pescatore mi raccontò che spesso la cosiddetta ‘fuitina’ veniva addirittura organizzata dai parenti della zita. Cosa succedeva? I ragazzi si amavano ma non c’era molto denaro per la dote e per la festa. Con l’ausilio dei genitori, che facevano intanto finta di nulla, i ragazzi fuggivano e si nascondevano per giorni interi o addirittura settimane in casa di parenti che vivevano nei paesi limitrofi: S’Elia, Bagheria, Casteldaccia, Milicia e Santa Flavia. I ragazzi prendevano poche cose, il necessario e fuggivano. Ovviamente il giorno dopo i genitori dovevano simulare rabbia; chi gridava, chi piangeva e i fratelli della ragazza spesso andavano alla ricerca dei fuggitivi, insomma immaginate voi com’era la cuosa, anticchiedda esagerata. Spesso c’erano vuci mmiènzu a strata, sembrava che ci fosse un morto, ma erano le voci della madre e dei parenti che simulavano un dolore per la perdita della figlia fuiuta, mentre i parenti ru zitu se ne stavano con le persiane chiuse attendendo che qualche paciere si facesse vivo. Insomma alla fine tutti a tavola, si perché dalle nostre parti è la tavola che è trazziera! Baciamu li manu.
Anna Citta è una docente di Lingua e Letteratura Inglese. Vive a Porticello, un piccolo borgo marinaro. Ha due grandi passioni: il mare e il dialetto siciliano. Da circa 10 anni Si interesso di tradizioni popolari e di detti tipici del nostro dialetto, usi e costumi, proverbi e altro. Il suo è uno studio senza fine, una grande passione che coltiva nel tempo libero. Pensa che studiare una lingua sia il modo giusto per entrare nella vita della gente, per capire i sentimenti di un popolo e il loro modo d’essere, per sentirne gli odori, i sapori e conoscere il dolore della gente. Per questo ama la Sicilia e la sua sicilianità.