“D’altronde siamo siciliani: la luce e il lutto fanno parte di noi”. Mi riecheggia da qualche giorno nel cranio questa frase della nota finale de “L’isola di Caronte”, il primo romanzo del bagherese Alessandro Buttitta, pubblicato da Laurana editore.
Partiamo col disclaimer: Alessandro lo conosco bene, ci siamo frequentati poco in quel di Bagheria, mentre ero all’ombra dello Stratuneddu lui era in giro per il mondo, da Roma alla Polonia, per poi sbarcare nell’isola di Ustica. È una lunga amicizia: epistolare prima, nello spazio di una chat dopo. Abbiamo annodato un pezzo di strada grazie alla collaborazione con una rivista che ci ostiniamo a tenere in piedi, quei “Pupi di Zuccaro” (www.pupidizuccaro.com) che hanno soffiato sulle loro prime 10 candeline l’anno scorso.
Detto questo, il romanzo di Alessandro è una ventata di brezza marina, una carezza che viene dalle onde che hanno cullato l’autore, nato solo per mero accidente geografico a Milano nel 1987. Ci siamo visti la prima volta nell’unico luogo possibile per due divoratori di pizza come noi: davanti a un pezzo di margherita di Mineo’s (Vivendo da 11 anni a Milano fatico ancora a credere che la Bagheria che conoscevo non esisterà più. La mia personalissima Spoon River).
Questo romanzo l’ho ricevuto quando ancora era nella sua forma embrionale, l’ho visto crescere e prendere forma, s’intitolava in un altro modo. Alessandro è nella stessa agenzia letteraria che rappresentava Camilleri, la sua scrittura è sicura, cammina nel solco tracciato da Sciascia, arata con tanta letteratura e messa a maggese con l’insegnamento e il giornalismo. Si sente in filigrana anche il passato di araldo delle serie tv dell’autore, ben prima che Netflix e lo streaming diventassero parte della nostra quotidianità. “A metà tra romanzo di formazione e giallo, racconta di Andrea Mangiapane, laurea di lettere in tasca, che entra a far parte di un’agenzia di pompe funebri, la Vita Natural Durante. Il suo primo funerale sarà molto particolare”, me l’aveva raccontato così Alessandro la prima volta che me ne parlò tre anni fa. Da allora il romanzo è cresciuto, con cesello e matita bicolore sino a prendere la sua forma definitiva, impreziosita da una copertina meravigliosa disegnata da Marina De Santis, giovane sicilianissima illustratrice fuoriclasse. Guardate i riflessi del mare, le sagome che si stagliano in piena luce.
Abbiamo intervistato l’autore.
Da dove ti è venuta l’ispirazione per le rocambolesche avventure di Andrea Mangiapane?
«Da un episodio capitato a un mio amico che, per gli strani casi della vita, è stato vicino a diventare un traghettatore di anime, un becchino. Negli anni ho rielaborato questo episodio e ho pensato che potesse diventare il motore narrativo del mio primo romanzo. Sono partito da una domanda: cosa sarebbe di un ragazzo trentenne, che di morti si è occupato solamente sui libri, in una situazione del genere? Come avrebbe reagito? Quali sarebbero state le sue impressioni?».
Un romanzo manifesto in questi anni sbilenchi e, aggettivo abusato ma necessario, precari. Andrea mette da parte le ambizioni per non essere seppellito con le sue frustrazioni. In questo binomio si gioca la vita di un’intera generazione: come ti poni?
«Faccio una precisazione: con ambizioni intendo velleità, sogni campati in aria senza solide basi. Da quando siamo al mondo noi, nati e cresciuti negli anni Ottanta e Novanta, siamo stati accompagnati da un’idea: basta studiare, basta impegnarsi, basta fare del nostro meglio, basta lavorare sodo per ottenere risultati in linea con le nostre aspettative. La realtà però è molto diversa. Spesso, a trent’anni, a quarant’anni, ci ritroviamo con un mucchio di promesse non mantenute. Le illusioni si sono trasformate in delusioni. Non siamo stati abbastanza bravi? No. Molto spesso avevamo progetti di vita troppo grandi. Non avevamo fatto i conti con la realtà delle cose. Credo nella programmazione, una programmazione che parte necessariamente dall’analisi di diversi fattori e delle nostre possibilità».
Tu sei atipico: a meno di 35 anni hai posto fisso, sposato e con una figlia. Hai messo tu stesso, come ammetti, da parte le ambizioni? Forse dovremmo fare i conti con la realtà più spesso e soprattutto non farlo quando è troppo tardi…
«Può darsi. Me lo sono chiesto diverse volte, soprattutto scrivendo questo romanzo. Sicuramente ho messo da parte le velleità. I sogni donchisciotteschi dei miei diciotto anni sono un lontanissimo ricordo. Ho compreso che è necessario accettare la realtà per poter incidere concretamente. Continuo ad avere molti progetti, alcuni anche a lungo termine. Accettare la realtà non significa essere remissivi. Nel mio caso ho fatto delle scelte molto precise. La scuola mi ha dato una stabilità professionale ed emotiva che il giornalismo, il giornalismo di oggi, non mi avrebbe mai garantito».
Se dovessi scegliere una pagina di questo romanzo, una sola, di cui vai particolarmente fiero, quale sarebbe?
«Domanda difficile. Non so scegliere. Decideranno i miei venticinque lettori».
La Sicilia non smette di produrre variazioni di gialli, secondo te perché c’è questo doppio nodo tra l’Isola e il mistero? Un personaggio siciliano o è poliziotto o giornalista o comunque indagatore a tempo perso. Andrea anche da becchino si ritrova suo malgrado a indagare. Ma ha una visione chiara anche “nel teatro di simulazioni e dissimulazioni che è la Sicilia”.
«Leonardo Sciascia ha scritto che il giallo è la letteratura del sottosuolo umano. È un’espressione che mi convince, specialmente in Sicilia, una terra ricca di zone d’ombra. Le indagini in un giallo spesso sono un pretesto narrativo per condurre un’indagine sulla società. “L’isola di Caronte” non è un giallo classico: è un giallo problematico. Il protagonista, Andrea Mangiapane, si muove in più direzioni: vuole scoprire le cause della morte del suo primo defunto; vuole scoprire che fare della sua vita; vuole scoprire soprattutto se le parole, le sue amate parole, le sue odiate parole, possono dare realmente un senso ai suoi passi».