“Non solo di covid si muore” e questo ce lo sentiamo ripetere da tempo.
Proprio per questo il ruolo di tutti gli operatori sanitari è quanto ai essenziale, anche di quelli che si muovono nelle cosiddette retrovie, ricorrendo a quel linguaggio bellico usato e, forse abusato, nell’ultimo anno. Che in epoca di pandemia la vita di chi quotidianamente svolge la professione medica, che sia in ospedale o in un ambulatorio privato,
sia di sicuro più complessa, lo dobbiamo riconoscere tutti. Non si tratta solo dei reali rischi che si corrono nel rapportarsi con i pazienti, vogliamo provare, attraverso questa intervista, ad approfondire l’aspetto umano
e psicologico di chi, anche in reparti non covid, è sottoposto ad una pressione continua che non si esaurisce di certo finite le ore di lavoro. La figura del medico viene spesso eroicizzata, e questo ci induce erroneamente, più che a riconoscerne i reali meriti, a legittimare ogni pretesa o rischio, dimenticandoci sovente che si tratti di persone prima di ogni altra cosa, madri, figli, fratelli, che in epoca di pandemia sottopongono ancor di più, oltre a se stessi, anche i loro affetti più cari ai rischi che hanno scelto di correre intraprendendo questa professione, ma le cui conseguenze, ora più che mai, ci rendiamo conto che possano avere una pesante
ricaduta anche su chi li circonda.
Abbiamo incontrato una giovane dottoressa bagherese, specializzanda in cardiologia presso l’Ospedale Policlinico di Palermo, e con lei abbiamo tentato di comprendere, attraverso un “punto di vista interno”, lo stato d’animo di chi svolge questa professione che è da intendersi, a mio avviso, più come una vocazione che come un percorso lavorativo.
Quanto e in che maniera è cambiato il suo lavoro dall’inizio della pandemia?
“La quotidianità ospedaliera è stata travolta dal fenomeno Covid, che ha di fatto modificato la quantità e la qualità del lavoro. Al fine di ridurre gli assembramenti nelle sale d’attesa e più genericamente negli ambienti
ospedalieri siamo stati costretti a ridurre il numero di visite ambulatoriali e di esami diagnostici elettivi, sospendendo tutte le prestazioni considerate differibili ma garantendo ovviamente tutte le prestazioni urgenti,
comprese quelle che riguardano i pazienti oncologici e gli interventi chirurgici non differibili, previa esecuzione di tampone molecolare a tutti i pazienti che accedono agli ambienti ospedalieri. Inoltre alcune
prestazioni che normalmente sono di appannaggio esclusivamente ospedaliero, come il rinnovo dei piani terapeutici di alcuni farmaci, sono state redistribuite sul territorio, con la collaborazione dei colleghi medici
di famiglia. Un cambiamento di grande impatto è sicuramente rappresentato dal divieto di visita dei pazienti ricoverati da parte dei familiari, assolutamente necessario per limitare il rischio di eventuale diffusione del virus, ma estremamente difficile da accettare psicologicamente sia per i pazienti che per i familiari. Ci siamo trovati pertanto a fronteggiare il malcontento di molti pazienti che spesso non riescono ad accettare questi cambiamenti organizzativi, sovente visti più come un abbandono da parte del sistema ospedaliero che come concreto tentativo di proteggerli dalla situazione pandemica. Chi svolge la professione medica sa bene che il rapporto che si instaura con i colleghi diventa assimilabile a quello che intercorre con i familiari. Infatti sia
la quantità di tempo trascorsa insieme dentro le mura ospedaliere che la costante condivisione di contesti lavorativi e umani spesso complicati e faticosi, porta alla nascita di relazioni che proseguono anche al di
fuori del contesto lavorativo. La pandemia ha purtroppo rivoluzionato anche questo aspetto, riducendo notevolmente i momenti di socialità che, circostanze ospedaliere permettendo, alleggerivano le nostre
giornate lavorative, basti pensare ad esempio che vige attualmente il divieto di consumare pasti in presenza di altri colleghi. Quello che era un ambiente fatto di ambizioni, relazioni umane, crescita, appare oggi
come un luogo quasi “ostile”, e l’entusiasmo che accompagnava ogni turno lavorativo ha ceduto il passo alla tensione, che si respira già all’ingresso del reparto con la rilevazione della temperatura corporea, e che prosegue nel corso della giornata, data la necessità di lavorare rigorosamente muniti di dispositivi di protezione da indossare per turni lunghi anche 12 ore senza alcuna possibilità di toglierli, perchè essenziali per salvaguardarsi. Inoltre, al fine di garantire la nostra sicurezza e quella dei pazienti, siamo sottoposti
a ripetuti tamponi di controllo, il che è sicuramente poco piacevole ma assolutamente necessario.”
Ci parli della sua vita fuori dall’ospedale.
“Senza dubbio la mia vita è molto cambiata nell’ultimo anno, infatti sono venuti meno i momenti di condivisione con gli amici e persino la relazione affettiva con il mio fidanzato, anche lui medico, è stata caratterizzata da lunghi periodi di lontananza. In più le mie giornate sono fortemente condizionate dalla convivenza con la mia famiglia; se infatti vivere da soli in questa fase di isolamento forzato non giova dal punto di vista psicologico, solleva al contempo da quelle responsabilità che sento gravare quotidianamente su di me. La tensione palpabile che si vive in ospedale prosegue infatti nel resto delle 24 ore anche all’interno delle mura domestiche, per la costante paura di contagiare i miei familiari, che mi ha indotta a cambiare le piccole abitudini della mia quotidianità, spingendomi ad esempio a consumare i pasti da sola e in momenti differenti rispetto alla mia famiglia, a scegliere di non condividere più la camera da letto con mia sorella e persino a lavare i miei indumenti separatamente rispetto a quelli del resto della famiglia. Si tratta di una condizione di isolamento sociale alla quale siamo tutti sottoposti, accentuata però, nel mio caso, dal rischio professionale di esposizione al virus.”
Ha paura di contrarre l’infezione? Nei bollettini che sentiamo quotidianamente capita spesso un aggiornamento sui contagi e i decessi di suoi colleghi, sono davvero tanti dall’inizio della pandemia.
“È innegabile che questa paura ci sia stata e permanga dal momento che, di giorno in giorno, abbiamo assistito a numerosi casi di contagio tra colleghi specializzandi, dirigenti medici, infermieri, Oss e altri collaboratori.
È stato di impatto vedere come una realtà che inizialmente sembrava così distante da noi si sia rivelata invece tanto vicina e pronta a colpirti nonostante l’estrema attenzione nel rispettare le misure di sicurezza e di igiene. Tutto ciò ha peraltro generato un clima di ansia e diffidenza nei confronti dell’altro, spesso visto come potenziale veicolo di contagio ancor prima che come collega o amico, e e ci ha resi consapevoli della nostra
estrema vulnerabilità e di come, anche solo a causa della minima disattenzione, questo virus prosegua la sua corsa. È stato molto spiacevole percepire le paure di colleghi e amici che hanno contratto l’infezione
e che si sono trovati a vivere in totale isolamento per più di 20 giorni, vivendo quotidianamente con il timore che sintomi lievi potessero improvvisamente aggravarsi. L’assenza di molti colleghi ha inoltre portato
oggettivi disagi nella gestione del reparto. La carenza del personale ci ha infatti costretti a diminuire i posti letto in terapia intensiva coronarica proprio a causa della ridotta forza lavoro.”
Ha notato un cambio di registro nei pazienti che adesso si rivolgono alle strutture ospedaliere con più consapevolezza?
“Durante la pandemia, soprattutto nelle fasi di picchi più elevati, si è inevitabilmente ridotto l’accesso dei pazienti in Pronto Soccorso. In primis sono sensibilmente diminuiti gli accessi impropri, quelli cioè dovuti
a sintomi banali per i quali prima, anziché rivolgersi alle figure della medicina del territorio ci si precipitava al Pronto Soccorso ospedaliero; oggi, a causa della paura del contagio, si valuta con più accortezza la
necessità di recarsi in P.S. D’altro canto però questo ha portato anche ad un evento estremamente negativo; molto frequentemente infatti pazienti affetti da problematiche gravi, come ad esempio dolore toracico,
finiscono col trascurare la propria condizione recandosi in ospedale tardivamente, in circostanze in cui invece è necessario rivolgersi precocemente al medico per ricevere terapie immediate. Per questa ragione voglio rivolgere un appello ed esortare a non sottovalutare il dolore toracico, invitando chi ne fosse affetto a recarsi tempestivamente in pronto soccorso, nonostante il difficile periodo che si sta affrontando, vincendo la paura del contagio, perché i rischi correlati alle patologie cardiache sono elevati e, talora, fatali.”
Come si rapportano con lei gli altri sapendo che è un medico e che potrebbe essere stata in contatto con pazienti contagiati?
“Da questo punto di vista devo riconoscere di non aver avuto esperienze particolari, mai nessuno ha mostrato paure o perplessità nei miei riguardi solo perchè sono un medico e quindi potrei essere stata a contatto
con soggetti infetti. Ciò che ho riscontrato maggiormente negli altri è stata invece la curiosità di conoscere più a fondo come sia cambiata la vita in ospedale in questo momento di emergenza. Recentemente la figura
del medico è stata elevata a quella di un eroe però, con la stessa rapidità, è stata sovente demolita. Ciò è dovuto in parte alla sfiducia generata dalla cattiva informazione e dai social e in parte ai toni, spesso quasi aggressivi ma talora necessari, con la quale molti medici si approcciano alla divulgazione scientifica, e che conducono erroneamente le persone ad ipotizzare non ben chiari tornaconto che ci spingerebbero a propendere per una teoria piuttosto che un’altra.”
Ne usciremo e come ne usciremo?
“Mi considero prima di ogni altra cosa una donna di scienza, e ho per questa ragione piena fiducia nei riguardi del progresso scientifico e della sperimentazione. Sono convinta che lo strumento per uscire da questa situazione sia il vaccino, per cui quando avremo raggiunto una copertura vaccinale soddisfacente riusciremo anche a ridurre la circolazione e l’impatto del virus non soltanto sulla nostra salute ma anche sulla socialità, sull’economia, sul nostro vivere quotidiano insomma. È quindi di grande importanza, secondo la mia opinione di medico, sottoporsi a questo vaccino, la cui validità purtroppo è stata screditata da una parte dei media con la messa in circolazione di notizie non ben verificate che ne mettono in dubbio i presupposti scientifici. Sarebbe bene allentare questa costante sfiducia nei riguardi del mondo scientifico e dei medici, e cercare
anzi di fidarsi di ciò che persone che hanno dedicato la loro vita allo studio e alla ricerca tentano di comunicarci, lasciandoci rassicurare da una potenziale soluzione che ci restituirà le nostre vite.”
Ringraziamo la dDottoressa, la cui identità è del tutto irrilevante, perché in realtà ci ha offerto uno spaccato di vita, non semplice, ma che è autentico specchio di un tempo che ci ha messo e continua a metterci a dura prova, a prescindere da età e contesti. Nonostante le tanto necessarie quanto forti limitazioni recentemente aggiunte alle precedenti, abbiamo finalmente un’opportunità alla quale aggrapparci e sperare per poterci riappropriare delle nostre esistenze. È ormai passato un anno dall’inizio di tutto, ma la percezione è che il tempo si sia dilatato concedendoci ogni tanto solo qualche ricordo lontano e sbiadito di ciò che eravamo e facevamo prima, ma che speriamo quanto prima di tornare ad essere.